domenica 4 settembre 2016

Quel che sarà, sarà di me la strage


Mi metto in ascolto
sull'imbrunir del giorno
ripenso a ciò che è stato
nato, morto, rinato.
Quel che sarà
sarà per me la strage 
di mille giorni
attesi
ad aspettar che vita
venisse incontro.

Ciò che sarà di me 
domani all'alba 
sarà di me l'attesa
di quei giorni
che parean gettati
nell'orrido braccio
che i più chiaman nulla.

Rimango
 con l'orecchio teso
al sussurrar del mondo 
e al parlar delle sue pene
dei suoi dolori e voci mozzate,

Quel che sarà
dei resti di questi giorni
di bella e giovine estate
sarà per me 
ciò che voi poeti,
ch'io attendea,
vita chiamate




venerdì 8 luglio 2016

Volti di vita quotidiana

Non vi è nessuna gloria in ciò che vi sto per presentare e nemmeno eventi di un coraggio antico. Semmai è un ardore del presente, di una vita quotidiana affrontata con dignità. Presentata da loro stessi, dagli stessi uomini che la vivono, che ogni giorno vi combattono; perché sì, che se ne dica, la vita è una guerra. Anzi, credo di poter affermare che sia indubbiamente la più atroce delle guerre. Infatti quando si scende in campo per combattere si lotta per la vita, non per altro.
In ogni caso sentirete parlare loro. Sentirete dei volti che prendono forma. Non vi sarà nessuna azione straordinaria perché di queste sono piene i libri, ma al centro vi  saranno vite comuni che mostrano con chiarezza che è possibile la straordinarietà nel quotidiano; che è possibile combattere una guerra senza armi e sudando ugualmente sangue.
Scoprirete cosa nobilita l'uomo e cosa lo ha nobilitato. I volti di ogni genere perché il mondo è vario e pieno di misteri. O potremmo invece affermare che il mistero sia solamente uno : cosa si nasconde dietro un volto vivo? E cosa lo anima?
La risposta a tale domanda cela dietro di se la risposta a qualsiasi altra obiezione. Non ridete, vi prego. Non è presunzione.  Ascoltate le storie dei nostri personaggi e in seguito potrete criticare e farne le vostre considerazioni.
Prima delle conseguenze però dovrà avvenire ciò con cui da sempre incomincia la vita: un' incontro.
Avverrà alla vecchia maniera, come si faceva una volta, per l'appunto.
Leggerete delle storie che si presenteranno come delle mani tese, come avveniva un tempo, quando ancora le persone tendevano la mano e dicevano  chi erano, qual era il loro passato e quali i loro desideri. Tutto questa in una mano tesa.




Joshua Wheat

Ho lavorato per tutta la mia vita nel campo di mio padre. Alla sua morte mi disse che dovevo continuare il lavoro che avevamo iniziato insieme. Mi disse inoltre che aveva comprato quel campo tempo addietro perché vi si nascondeva una grande ricchezza.
Ho coltivato ogni giorno la terra di quel campo e l'acqua con cui lo ho innaffiato molto spesso era l'acqua che non bevevo io. Ho avuto annate buone e annate terribili. Ciò che mi ha spinto a non cambiare mai vita era la promessa di mio padre riguardo alla ricchezza di quel  campo che non veniva mai.
Ho desiderato sempre più di quanto  avessi. Quando l'annata era cattiva ho voluto che fosse migliore, quando invece dal cielo cadeva la pioggia ne volevo di più, ma che non fosse grandine.
Ho lavorato per più di mezzo secolo un campo di cui ho conosciuto ogni erbaccia e ogni imprecisione, ogni dislivello  e tutte le zolle.
E' un campo che ho maledetto e che ho baciato.
E' una terra che ha conosciuto l'odore del mio sudore e il colore del mio sangue; ha visto la mia fatica e ha gioito dei miei successi.
Ho desiderato fino all'ultimo giorno di vita quella ricchezza di cui parlava mio padre, che tardava a venire.
Sono morto felice, in cucina. Come si conviene ad uno scapolo. Non ne ho fatto scene atroci. Sono morto come si muore di norma, smettendo di respirare. Ero felice perché mi guardavo le mani e mentre morivo ho capito che la ricchezza l'avevo sempre avuta ben stretta e vicina a me.
Avevo le mani piene di terra e sbucciavo una cipolla.
Del frutti del campo sono vissuto e delle sue miserie sono morto. Dalla sua ricchezza sono rinato.



Henry Flynn

Ho guardato  a lungo verso l'orizzonte, senza mai scorgerne la fine. Ho custodito il faro.
Sono stato  la speranza di molti  marinai, la salvezza di molte mogli.
Il  guardiano del faro, che a questo ha dato la sua vita.
Sono morto al buio, ma era pieno di luce il mio cuore.
Illuminava la  costa e la mia nave attraccava al porto.
Era buia la stanza, ma vedevo solo la luce del mio faro.



Leonard Dubois


Sono stato lo  zimbello dei pittori di Parigi.
Sono stato  deriso  e sbeffeggiato,  io  che ho alle mie spalle avevo un migliaio di quadri di qualità incredibile. Mi accusavano di  non averne venduto nemmeno uno e di non aver nemmeno mai dipinto.
Se con dipingere intendevano mettersi lì con la tela, i pennelli e il resto non avevano tutti i torti; non avevo mai avuto la briga di fare tutto  questo. Avevo una collezione di quadri prodotti dalla mia immaginazione, rifiniti nei minimi dettagli.
Prima di morire mi si avvicinò una donna che dall'aspetto si intuiva non mancasse di soldi e buona famiglia, probabilmente dell'alta borghesia Parigina.
Mi si avvicinò e mi disse che comprava tutti i miei dipinti, dal primo all'ultimo.
Mi diceva così "Faccia uno sforzo di memoria, la prego signor Dubois, dal primo che ha immaginato!".

mercoledì 15 giugno 2016

Sei una canzone non ancora scritta


E i tuoi figli sembrano dei disegni
i nostri figli intendo
ma non nascono
e le tue mani rovinate
hanno lavorato, si vede.

Il tuo cuore è ferito come sulla croce
ma perché?
le tue lacrime sono salate
tu che conosci il mare

la tua voce
non ha voce
il tuo odore mi arriva incontro
e poi sparisce.
Sei una canzone non ancora scritta.

Ti cerco
Dio mio se lo faccio,
ma dove sei?

mi aspetti nel campo di grano
al fianco della ragnatela nel fienile.
Mi aspetti
Ma dove?

Volto senza volto
ricordo senza passato.
Che sia una donna
che sia carne.

Sia ossimoro!
e che sia dolore.
Che sia una vasca
da cui si esce asciutti.

Dove sei?
Le tue coordinate:
trenta gradi a sud-est della mia solitudine
e poi non ricordo.

Un libro
non ancora partorito.

Una di quelle ragazze
che sul treno sono eterne,
ma muoiono nel letto.
Muoiono nude
a poco lo hanno venduto
quel per cui pensavano di valere.
Ma tu non sei
così
no
sei eterna e non lasci traccia.

Ma dove sei ?
Quando nasci?

giovedì 2 giugno 2016

Diario di un perdente

"La questione è la felicità. E' lei che domina questa vita così strana, a tratti così reale che non la si potrebbe immaginare diversa. E' una sera fresca, di quelle che esci e non chiudi la porta dietro di te. Ti rinfresca le ossa e le luci sono tutte così giuste. Mi sembra quasi di sentire l'odore salmastro, ma non c'è mare qui. Alle volte lo porto io il mare in città. Lascio cadere qualche granello  di sabbia dalla tasca senza farmi vedere. E un giorno, lo so, saremo tutti sdraiati tra macchine e ombrelloni. E faccio lo  stesso con la città, me ne porto sempre un po' dietro quando vado a trovare quel tizio di cui ti parlavo, quello  che ho conosciuto di fianco alla biblioteca mentre rubavo un libro. 
In ogni caso è una di quelle sere di cui ci si dimenticano i particolari, ma ci si ricorda che era tutto giusto. 
Mi chiedi dei miei affari. Una grande nebbia  avvolge la mia vita e faccio fatica a produrre; per un giovane aspirante artista come me è una maledizione. Per di più in una città a cui sono sconosciuto. O meglio, io l'ho conosciuta per bene, ma i suoi abitanti mi sono indifferenti. Nomino le cose e le persone perché non le conosco, loro non sanno nemmeno che io esista. Ogni volta che varco la porta del mio condominio mi sembra di agire nell'ombra. Effettivamente sono l'ombra di questa città, ho perso quasi tutto  quel che ritenevo mio. Non intendo le cose, mi riferisco alle espressioni che avevo prima che succedesse quel fatto che tu ben sai e di cui abbiamo ampiamente discusso per via epistolare.
A proposito, ti tengo sempre nel cuore e nei miei passi, e il tempo che dedico a te è molto più di quello che impiego a buttare giù qualche parola sulla carta. Ti conservo tra le lettere, come le foto. Ma tu non sbiadisci. Ho fatto male i calcoli e non riuscirò a tornare per i prossimi mesi. Il costo del biglietto è superiore a quanto credevo e i soldi scarseggiano. Scrivo sempre per qualcuno, ma mi sembra di guadagnare solamente un po' di vita in più. Dei soldi nessuna traccia. Prendo i lavori che ci sono, anche i più umili, non avrei mai pensato di arrivare a tanto. 
Ti dicevo della  felicità. Maledetta.  La vedo negli altri e non la faccio mai mia; a volte provo a trattenerla, ma finisco ogni sera con le mani nei capelli a cercare di darmi delle risposte. I vicini si lamentano di continuo. Durante l'ultima riunione condominiale erano tutti d'accordo che la situazione sia ormai insostenibile, dicono che piango troppo forte. "Si contenga!" dicono così. Dicono così.  Mai nessuno che ti chieda delle tue lacrime, mai nessuno che ti dica "Diamine! Ma non riesce a piangere più forte?". Non cerco la compassione, spero si capisca ciò che intendo.
Dovrei lavorare per una rivista settimanale che si occupa di ricercare nuovi talenti nel campo della poesia, ma la metà sono idioti,e l'altra scrive così bene che l'invidia ogni volta mi convince a non comunicarne gli elaborati. 
In un certo qual senso continuo ad aggiornare il mio "Diario di un perdente", ho un sacco di nuovi spunti ogni giorno. 
La felicità. Prende quelli che la intravedono e richiama i perdenti come me. Brutta faccenda questa. Non trovi che sia una bella questione da sottoporre alla tua guida spirituale? Farebbe una gran fatica a risponderti credo. Mi fa male tirarti dentro a questo vortice di fallimenti, mi fa male per davvero, ma è come se la città fosse alle volte travolta da ondate di malinconia che rende tutto  più invivibile, specialmente i luoghi in cui ho riso e goduto della poca vita che avevo con me. Io sono sempre in prima linea quando l'onda arriva. Mi dico che è questione di posizione, infatti ho cambiato casa un paio di volte, ma non era quella la questione. Mi segue in città e poi arriva anche dalle sponde dell'oceano. Mi sento circondato, mi fa paura. Cerco di far diventare la città oceano con un po' di sabbia, e trasformare il mare in abitazioni stabili gettando qualche calcinaccio, giusto per confondere l'idea alle onde, ma sono solo in questa impresa titanica. Mi hanno abbandonato tutti e temo che il mio progetto non sarà realizzato prima della mia morte. Non farò in tempo a vedere il mio piano finito, ti rendi conto che delusione? E dire che mi sono impegnato così tanto. 
Non voglio trascinarti con me, lo giuro. 
Questa sera esco. Non so se sia la scelta migliore, ma la questione è che non ho scelta. Stamane i condomini mi hanno detto che entro domani avrei dovuto lasciare la mia casa. Lo accetto.  E' normale che si voglia stare un po' tranquilli, trovo sia lecito.
Mi sono detto che è meglio lasciare la città di sera, quando si veste per uscire anche lei. Di sera, quando la città è ancora viva e le luci sono giuste. Non credo di aver fatto male i calcoli, già mi vedo passeggiare tra le vie umide e strette, con l'irrequietezza di chi lascia qualcosa che non ha mai compreso. Non dico che faccia male, però  sicuramente non è piacevole. Questo è il diario di un perdente. Sono io. Mi chiedono : "Tu cosa fai nella vita?"
"Perdo"
"Ah sì? (Chissà perché poi sono sempre tutti così stupiti, vorrei sapere se loro hanno sempre successo). Perdi cosa?"
Tutti che si ostinano ad accodare a quel verbo un maledetto sostantivo! Io perdo e basta, d'accordo?
Deludente? Sì, lo so. E' davvero deludente. 
Questa sera esco. Mi vedo già. Perso per le strade. Perso fra la gente. Perso per la  città dalle mille luci fioche.
Diario di un perdente. O forse diario di un perduto? No, perdente credo vada meglio. E' più attuale.
Mi vedo già con le mani nelle tasche. In una un po' di mare e nell'altra qualche pezzo di città."

domenica 29 maggio 2016

Sophie

A Sophie piace Parigi. Mi correggo, Sophie ama Parigi, ma non è francese.
No, Sophie ha tutta l' aria di essere una ragazza di Kansas City, ma chissà da dove diavolo viene.
Sophie chiede di andare via, in continuazione. Io ci provo a starle dietro.
Viaggiamo solo con il sole, quando fa caldo. Mi piace guardarla con la luce. Inizia a darle fastidio e io rido, si vedesse quanto è bella.
Dorme. La notte dorme e io faccio il possibile in modo che lei vada avanti a tenere gli occhi chiusi. Scrivo poesie al buio e lei nemmeno lo sa. Tedesco, francese, spagnolo, portoghese, italiano, inglese fa lo stesso. No? Devo dirle che sarà immortale, che importanza ha che lingua uso?
Non lo sa che scrivo. Perché dovrebbe?
Un giorno quando mi dirà che vorrà dormire da sola, senza compagnia, le darò le poesie e tutte le parole che ho scritto e le dirò "Mentre dormivi.."
Secondo me non sarà stupita, Sophie per queste cose non ci resta secca come le altre. Sophie è diversa. E' curiosa e non lo dà a vedere.
Cammina come se qualcuno la stesse rincorrendo, forse il tempo, forse gli sguardi attenti della gente.
Perché a lei alla fine questa vita piace. Potrebbe anche non esserci la poesia ecco, forse nemmeno il teatro, il cinema, addirittura la musica, e a lei la vita piacerebbe lo stesso. Ma alla fine la poesia esiste se c'è la vita, è una conseguenza. E' quasi matematica la questione.
Va in giro con un cappello che le nasconde le parti del viso che vanno immaginate, lei segue sempre la regola secondo la quale l'ignoto è sempre e comunque più affascinante del già visto e già sentito.
Alle volte se ne esce con domande strane e ti chiedi se stia bene o se stia recitando. Ma la verità è che Sophie è una vita che recita. E' anche una vita che non sta bene. Ma udite udite l'ossimoro: lei se la spassa quando si accorge di recitare e di non stare troppo bene. Com'era per Shakespeare? Ah sì ecco, tutto il mondo come un grande palco e noi.. sì, già, noi dei grandi attori.
Niente male Sophie. Alle volte recita così bene che persino io finisco per crederle e darle retta.
In tram e in treno non si vuole mai sedere, al contrario, io devo sempre stare attento che non scenda perché non si sa mai. Alle volte mi dico che un giorno in cui sarò un po' distratto la perderò per sempre. Sarebbe sicuramente strano non rincorrerla più; non saprei a che fermata scendere.
Mentre cammina dice sempre che qualcuno dovrebbe scrivere una canzone per lei, oppure che dovrebbero fare un film sulla sua vita. Che vorrebbe vedersi camminare per strada intendo. Io non le dico niente delle poesie, perché con le canzoni e i film è diverso. Bisogna fermarsi e stare in silenzio. E poi le poesie non sono così immediate; si pensa di averle dimenticate, ma poi tornano come le stagioni. Uno non se lo aspetta e si trova in bocca delle parole che non sa proprio da dove provengano.
L'altra notte si è sdraiata sul letto più stanca del solito.
Mi sono seduto di fianco al suo corpo, senza far rumore, con la penna e una pila di fogli.
Ho scritto solamente "Sophie" e mi chiedevo cosa facesse rima con quel nome. Cosa facesse rima con quel corpo stanco. Con quelle sei lettere che facevano tanto pensare.
Che diavolo serve scrivere delle poesie mentre lei dorme, mi chiedevo. Cosa caspita serve?
Forse a costruire dei ponti. Forse a dipingere quando non si hanno i colori, a suonare qualche nota quando non hai lo strumento. A costruire ponti insomma.
- Domani a Parigi? - sussurra in dormiveglia.
- Domani a Parigi Sophie, domani a Parigi -

Scrivo sul foglio:
Sophie
Parigi

Magari in un altro mondo. Magari in un altro mondo la rima c'è.

giovedì 26 maggio 2016

L' oceano nella mia stanza


Forse sei tu che mi vieni a trovare, forse nemmeno lo so chi sei. So che quando arrivi così senza avvisare mi prende una grande nostalgia, che se sapessi nuotare inizierei a farlo. Nuoterei. Come fai tu, che negli occhi hai sempre le navi, negli occhi hai dipinto l'oceano. Perché ferma non riesci davvero a stare. 

Sei tu questa. Ha lavorato la mia memoria per ripristinare anche solo qualche particolare raccolto in passato che sembra lontano, il resto l'ho lasciato alla mia fantasia; però sei tu, che mi vieni a trovare. Sei tu. Con quel sorriso di malinconia e io ti dico "torna", ma non è tempo. E tu sei già in viaggio.
Sei tu. Sei tu quando parti.



- Mi dica, dove va? -

- Vado -

- Su questo nessun dubbio signorina, ma parte o ritorna? -

- ... Parto -

- Ne è sicura? - 

- Ritorno. -

- Si decida, parte o ritorna? -

- Entrambe. E' sempre così difficile scegliere. Quando si parte si lascia tutto, quando si ritorna ci si lascia alle spalle il resto. -

- E lei ha scelto per il tutto o per il resto? -

- Se ci fosse la possibilità di un via di mezzo io avrei scelto quella. Se si potesse partire e tornare insieme. Invece no, qualcosa si perde sempre -

- Mi dica, cosa ha paura di perdere? - 

Silenzio

- Non lo sa? Non sa cosa non vorrebbe perdere?

Silenzio 

- Il tutto. Il resto. La vita. Ho paura di perdere questo. In ordine ho paura di perdere: il tutto, il resto e la vita. -

- Capisco -

- No-

- Cosa no? -

- No, lei mi dispiace ma non capisce. Non può capire. -

- E perché mai non dovrei  capire? -

- Perché lei non ha gli occhi -

Ride

- Gli occhi? Questa è davvero bella. Venti anni di onorato servizio e una cosa così non l'avevo mai sentita! -

- Parlo degli occhi veri. Quelli con cui si guarda il mondo, il mondo in maniera sempre nuova. Gli occhi che fanno innamorare le persone. Gli occhi a cui pensa lei, a cui pensano tutti, alla lunga stancano. Ma questi occhi, di cui le parlo io, sono eterni. Fanno un male tremendo, come una spina o una ferita sempre aperta, ma sono veri. -

Lei li aveva, è per quello che ne poteva parlare.

Se ne era andata. Non si sapeva bene se fosse partita o tornata, ma era di nuovo in viaggio.
Faceva male pensarla in viaggio, ma che bene al cuore che faceva invece pensare a quegli occhi.

Aveva lasciato un biglietto che diceva all'incirca così: 


"Se le chiedono se sono viva, lei non dica nulla. Lei faccia finta di niente, come se niente fosse. La prego. Se le dovessero domandare dove mi trovo, lei risponda che non c'è posto per me, non c'è posto alcuno; dica loro che nemmeno le ceneri mi vogliono, che il mare non mi inghiotte e la terra non mi vuole masticare. Non c'è morte per me, non c'è riposo, non c'è un bosco dove mi senta al sicuro. Sono in eterna partenza e costante ritorno; sono la nuvola che vola sopra la testa delle persone per bene. 
Di notte tengo sveglie le persone delle mie spiagge e di giorno distribuisco speranze che annegano nel mare ( è questione di fuso orario)."

martedì 3 maggio 2016

7 di Aprile

Tra cinque ore sarebbe successo qualcosa. Cinque ore, non un minuto in più, non un minuto di meno.
Lo sentiva. E se non fosse successo qualcosa lo avrebbe fatto accadere lui.
Era salito un caldo insopportabile nella stanza dell'albergo in cui da qualche giorno dormiva. Gli capitava di guardare quegli oggetti, quel letto, che vedeva da poche ore, come se da sempre gli appartenessero. Non capita forse anche a voi? Non vi capita di impossessarvi degli oggetti nuovi alla vista, delle frasi pronunciate per sbaglio, degli errori commessi con senno e portare tutto questo nel vostro cuore estraendolo all'occorrenza in tempi meni sospetti e forse lontani? Sono sicuro capiti anche a voi. Gli capitava frequentemente. D'altra parte si era abituato a viaggiare e a spostarsi da un posto ad un altro da quando la moglie non era più tornata a casa quel 7 Aprile, che Dio lo elimini dai giorni in cui l'umanità si è svegliata! Che Dio si dimentichi di quel 7 Aprile così insipido, così maledetto. L'aveva cercata ovunque: aveva guardato in cucina, poi in dispensa, in soggiorno e con passo più celere e cuore affrettato nell'attico; si era fermato a riflettere e il sette Aprile avrebbe dovuto essere uno di quei giorni in cui sua moglie finiva presto di lavorare. Che si fosse fermata a comprare qualcosa? L'aveva aspettata qualche ora, ma niente. Se ne era andata. Nemmeno un biglietto? Neppure una riga, neanche un saluto. E poi si sente dire che non esiste più la cavalleria. Sarà anche vero, ma non si lascia una persona così. Soprattutto un uomo. Le donne sanno soffrire, ci sono abituate, ma gli uomini sono una frana in queste cose. Non si fa così, sarebbe bastata una riga "Ciao me ne vado, non sono andata a fare la spesa". Ecco, così sarebbe stato lecito. Invece l'aveva aspettata qualche ora e poi aveva ricominciato a cercarla, magari non aveva controllato bene. No. Aveva guardato con attenzione invece.
Aveva appoggiato la testa fra le mani. Aveva pianto. Poi le mani le aveva messe sul volante della macchina e non si era più fermato. Era come se gli avessero tolto la terra da sotto i piedi. Non una terra qualsiasi, la sua terra. Sua moglie aveva portato via lo spazzolino, il dentifricio, una borsa, qualche vestito e la sua terra. Fa male quando ti portano via la strada su cui dovresti camminare, la strada su cui sei stato abituato a camminare. Perché a cinquant'anni non ti ci abitui più. Hai imparato a vivere con una donna ed è troppo tardi per abituarsi ad altri occhi, a braccia diverse. Il profumo. Vogliamo parlare del profumo? Alle volte gli sembrava di sentirlo in giro, ma era come un lampo che subito scompariva lasciando non solo l'odore delle cose grigie e comuni, ma anche una tristezza abissale, più profonda dell'odio e del mare.
Gli aveva portato via tutta la terra e lui aveva provato ad abituarcisi, ma cinquant'anni sono troppi. A diciannove si fa ancora in tempo sì, ma a cinquanta no. E' metà di un secolo vi rendete conto? E' un'assurdità. Sono troppi cinquant'anni per abituarsi.
Era salito un caldo tremendo nella sua stanza e si era sbottonato la camicia. Era sceso e aveva consegnato le chiavi a chi di dovere. Si era infilato in uno di quei locali di cui ci si fida già dall'insegna. Fuori era scritto così "Un drink  gratis per ogni delusione amorosa o di qualsivoglia genere". 
Sapeva già entrando che non sarebbe uscito con le sue gambe da quel posto.
Dopo la decima delusione aveva iniziato a urlare e dare fastidio, e lo avevano sbattuto fuori.
Aveva provato a rientrare sostenendo che avesse ancora qualche migliaia di delusioni da smaltire, ma lo avevano avvertito che se avesse continuato avrebbero chiamato la polizia.
Se ne era andato, non era mai  stato un tipo coraggioso.
Voleva solo la sua terra, voleva il suo dannato letto e la sua casa. E magari una riga con scritto "Sono tornata, ho fatto la spesa. Ti amo."
Al diavolo. L'unica cosa che gli era rimasta era la puzza di fumo che si attacca ai vestiti, alla pelle e alla gola. La puzza di fumo se ne va quando merda vuole lei. Aveva persino finito le sigarette, che vita spietata.
Sarà stato per eccesso di delusioni , per la  terra scomparsa o per la moglie o forse per il caldo che si  era mescolato all'alcool nelle sue vene, ma morì sul letto della sua stanza il 7 Aprile di quello  stesso anno. Morì da solo, come muoiono tutti in questo mondo.
Ma la sua  rivincita se la era presa. Sul cuscino un biglietto che diceva così: "Che Dio ci scampi da giorni come il 7 Aprile. Che Dio se lo dimentichi questo maledettissimo giorno."
P.s  Al diavolo la tua spesa.

domenica 24 aprile 2016

Per ogni onda una tempesta

Il mare non prometteva nulla di buono e l'adagio dondolare delle barche nel porto non erano che un lontano ricordo nei suoi pensieri. A dirla tutta era il cielo a non promettere nulla di piacevole, il mare è sempre lo stesso; alle volte più arrabbiato del solito, questo certo, però il mare rimane quello. Il mare, pensava lui, è una promessa che si esaudisce ogni volta che lo si guarda. Una donna che non si stanca di nascondersi e farsi guardare.
Stava lì seduto sulla prua di quella barca che avrebbe avuto bisogno di due o tre mani di vernice, ma ai loro occhi pareva una vascello di una storia troppo passata per essere così viva. Lasciava penzolare i piedi a filo dell'acqua e capitava alle volte che le onde si divertissero a bagnargli i piedi. Era fredda l'acqua, non era di certo stagione di bagni e costumi. Con quel tempo delle persone assennate avrebbero scelto il caldo di un camino al vento battagliero di un nord senza bussola.
Stando appollaiato lì rimuginava riguardo a cose che credeva non avrebbe più potuto cambiare, perché da tempo le aveva ormai prese con sé la morte. Pensava che è davvero brutto quando non puoi più farci niente. E' come per il mare. Quando questo vorrebbe salire sulla terra ferma, ma si deve accontentare dello spazio che gli è stato concesso. E' davvero brutto quando non c'è più nulla da fare. E poi ci si arriva sempre troppo tardi: nel momento in cui ogni speranza si ritira si è disposti a dare tutto. Spesso si arriva tardi. Quel giorno Abel aveva voglia di fare milioni di errori, di farsi odiare da tutti e di mettersi in mostra, ma non voleva arrivare tardi.
Ellie continuava a sostenere che la cosa più saggia da fare sarebbe stato tornare indietro perché iniziava ad alzarsi uno di quei venti che non intende risparmiare niente e nessuno. Lei aveva il viso cosparso di lentiggini che la rendevano diversa da ogni ragazza della città; sulle sue labbra si intravedeva un velo di innocenza che solitamente  metteva a disagio le persone. Ma non era tempo di innocenza e nemmeno tempo di tornare indietro, non era questo il momento: ora la battaglia, ora sarebbe venuta a galla la verità. Arriva il momento in cui ci si guarda in faccia e, alle volte senza dirselo, si ha il bisogno di diventare uomini. Ellie era ancora troppo innocente per diventare donna, Abel si sarebbe volentieri sporcato le mani per essere riconosciuto in città come uomo. Avrebbe affrontato il temporale. Avrebbe affrontato il mare e anche Dio se fosse stato necessario. Perché, alla fin fine, se non si diventa uomini prima di morire, può forse esistere un Dio?
Iniziò a piovere a dirotto e Cole, che fino a quel momento era rimasto in disparte seduto a poppa, si espresse con uno di quei sorrisi che gli si dipingevano sul volto ogni qual volta che era indeciso sul da farsi; probabilmente anche lui come Ellie avrebbe avuto voglia di stare al caldo, ma allo stesso tempo sembrava curioso di vedere come sarebbe andata a finire la faccenda. Abel gli sembrava diverso, era senza dubbio diverso dal giorno prima. Era diverso rispetto agli anni che aveva vissuto fino a quel giorno, da quando lo conosceva lui. Da quando sua madre lo aveva partorito con fatica. Era come se in una notte, in sole poche ore, avesse scelto di diventare uomo. Come quando si decide di partire o di ridere. Come se avesse scelto di assecondare una profonda esigenza che ogni giorno si stupiva di avere, dato la sua poca vita. Aveva deciso di uscire con la tempesta ed era persino riuscito a convincere sia Ellie che Cole.
La pioggia batteva forte e Abel si chiedeva che cosa servisse la pioggia al mare. Forse a dirgli che non è solo come crede. A dargli fastidio o solo un forte solletico. Lo scrosciare delle gocce nell'infrangersi contro altra acqua rendeva il paesaggio ancora più violento, e grandi spruzzi di acqua salata mista ad acqua piovana schiaffeggiavano il viso di Ellie che, come se non bastasse tutto quel navigare, era rigato dalle lacrime. I suoi capelli si erano attaccati alla fronte e il suo vestito ricamato aveva preso le forme del suo corpo, ma tutto questo non le impediva di essere bella. Ellie era davvero bella, di quella bellezza su cui rimugini la sera a letto. Di cui ricordi un maledetto particolare che non puoi fare a meno di scordare. Quegli scorci fotografici che ti rimangono impressi e preghi di ritrovarli per strada, magari anche in un'altra persona. Quella bellezza che Abel sosteneva fosse dell'arte, di un'arte che non muore mai. Ellie lo sapeva di essere così. Sapeva di essere l'attrazione della città, che non contava molte anime, ma certamente altrettanti corpi. Alcuni la ritenevano senza ombra di dubbio una ragazza strana e quindi interessante, e tutti gli altri invece la guardavano  con la coda dell'occhio, come se non gli importasse, ma la verità era che questi erano proprio coloro che aspettavano che lei facesse le scale di casa e imboccasse la via che la portava in città. Lei lo sapeva, ma sentiva solamente un grande peso. Così appesantita da tutti quegli sguardi da sentirsi male. Era per questo che stava con Abel; lui non si soffermava a guardarla come tutti, non la fissava, ma con un'occhiata le faceva capire che se in vita si fosse mai sposato, avrebbe scelto di sposarsi con lei, magari tra qualche anno.
Era per la sua innocenza che Ellie aveva scelto quel giorno di uscire in mare, come una vera incosciente.
Era per assoluta arroganza che Abel aveva deciso di uscire in barca, con quella coscienza della realtà così  spregiudicata che lo spingeva a fare cose che un ragazzo dai capelli  lisci non avrebbe mai fatto. Da quando infatti era nato aveva sempre avuto capelli che si srotolavano su loro stessi. Ogni cosa in lui richiamava la guerra: dal naso all'insù, ai capelli e per non parlare di quello sguardo che aveva tutta l'aria di un'invettiva ogni volta che veniva sguainato. Sempre armato di una battaglia che alle volte non sembrava nemmeno appartenergli.
Quando la pioggia incomincia a farsi così fitta non si riesce più a vedere oltre il proprio naso. Abel non vedeva che acqua. Non vedeva nemmeno Ellie, ammesso che fosse riuscita a trovare appiglio. Ammesso che Ellie non fosse tra le onde ora a piangere le poche lacrime rimaste.
Quando la pioggia è così fitta fa male. 
Con la passare dei minuti si allungava la vista sulle cose e ogni onda riconquistava la sua giusta forma. E' bello quando si riscoprono gli oggetti,  quando si riscopre il mondo. Come quando dopo essere usciti da un luogo buio ci si imbatte nuovamente nella luce e, dopo un attimo di smarrimento, ogni cosa del mondo ti dice "Guarda! Io sono così!".
Ogni onda al suo giusto posto, persino con un po' di schiuma, per ricordare il passaggio del vento. 
Abel voltò la testa,dopo quella prolungata solitudine personale di cui ogni uomo dovrebbe godere ogni tanto, e vide Cole seduto, come se nulla fosse successo. Rideva divertito e sembrava quasi volerne ancora di acqua, nonostante fosse bagnato dalla testa ai piedi. 
Ma non vide solo Cole, al contrario, gli sembrò di vedere soltanto Ellie. Portava sul viso sempre quella  sua innocenza che a tratti però lasciava spazio ad un coraggio che nessuno in città avrebbe potuto dire femminile, tanto meno di una come Ellie. 
Seguì un silenzio atroce. Non perché nessuno avesse niente da dire, ma perché ognuno di loro aspettava qualcosa, senza magari nemmeno sapere cosa. Il silenzio serve a questo, giusto? Non è forse un continuo protendersi con rispetto verso qualcuno o qualcosa che con prepotenza irromperà nella nostra vita?.
- Ora possiamo tornare a casa, se ne avete voglia- sussurrò Abel, come se parlasse tra sé e sé.
Il mare era proprio come lui. Ora lo aveva capito. O forse era lui ad essere come il mare. Diamine! Non sapeva a chi attribuire il primato, forse al mare data la sua età, ma sentiva che avevano qualcosa che gli legava per sempre. Nel modo di urlare e di scagliare tempeste. Erano entrambi fatti per guerreggiare e, alla sera, cercare il disperato riposo. Avevano lo stesso modo di guardare Ellie e cancellarle le lacrime dal viso dopo averla fatta piangere. Avevano lo stesso modo di farle del male e poi chinarsi per una carezza.
- Restiamo. Possiamo restare - disse lei, mostrando quell'orgoglio di chi non ha paura del sale sulla pelle.

mercoledì 30 marzo 2016

Vite di Praga

Ho toccato il fondo.
Con l'occhio, ho toccato il fondo della bottiglia. Alle volte bevo così velocemente da non accorgermi nemmeno che me la sono gustata. L'occhio fissa il fondo. Pare che lo tocchi, che mi chieda "Dove diavolo ti stai cacciando? Da cosa fuggi?".
Non c'è osteria di Praga che non abbia conosciuto il mio nome e la sera gli ubriaconi da quattro soldi, ma persino quelli che lo fanno di mestiere, mi invocano come in Chiesa si invocano i santi protettori.
Guardo il fondo e mi chiedo come ci sono arrivato. Ho fatto male? Non lo so, so solo che è successo.
Ho combattuto nella mia vita. Con il fucile e anche senza. Davvero ho combattuto, sempre in prima linea. Questo me lo concederete, anche voi che mi avete sempre incontrato al vostro bancone, quando ordinavo il settimo litro di birra della serata. 
Ma poi capita. Come la guerra. Come quando si raccoglie un fiore. Come quando qualcosa cade.
Un giorno sei in pace e un attimo dopo non lo sei più. Se ci  fate caso è la stesso di quando un mucchio di persone stanno parlando amabilmente e di colpo tutto si blocca. Tutti immobili per un attimo, nessuno che faccia un verso. Capita così nella vita. 
Ho toccato il fondo e si è bloccata ogni cosa intorno a me. Mi sono fermato pure io a dire il vero. Dopo l'ennesima bottiglia sono tornato a casa e ho bruciato tutte le medaglie al valore e tutti i quadri, tutte le foto vecchie e nuove, tutti i mobili. Tutto. Ho toccato il fondo. La sera prima ridevo e cantavo con persone di cui nemmeno ricordo i volti. Ora canto sul fondo della bottiglia. Canto la mia disfatta e le mie imprese inutili. Non mi meriterei nemmeno la peggiore delle morti. Mi dovrei impiccare annegando nel fuoco, ma non sarebbe abbastanza. Lo so, non sarebbe mai abbastanza. Invocate pure il mio nome, bestie! All'inferno ci stringiamo e ci starete anche voi con me e gli altri.
Un giorno sei in prima linea e il giorno dopo ti trovi in prima linea con i codardi, ovvero in fondo, dove nessuno ti vede, ma tu puoi assistere. 
Una sera, sempre quella stessa sera in cui ho bruciato tutto, mi sono convinto. Mi sono detto una volta per tutte che non sono tutti tagliati per le rivoluzioni. Ad alcuni va bene così, va bene la vita che gli capita. Non tutti possono combattere ogni giorno. Non tutti ne hanno la forza. Ad alcuni basta alzarsi dal letto. 
Ho toccato il fondo. Non sono sempre stato così. C'era un tempo in cui mi piaceva l'odore dei campi appena tagliati, l'odore dell'estate che arriva senza avvisare nessuno. Si maschera con il volto della primavera e poi arriva. Come la guerra. Ti svegli ed è estate. Ti svegli e c'è la guerra. 
Ti svegli ed hai toccato il fondo, magari è persino estate. Magari sei persino in guerra.
No. Mi sono ripetuto mille volte ogni giorno che non avevo abbastanza forza. C'è chi nasce tagliato per quello, mi dicevo, e io non sono uno tra questi. Io mi alzo dal letto e basta, vedo ciò che la vita mi toglie e mi dà.
Vi dirò un segreto. La mia vita è segnata, sento già il freddo della morte. Il gelo  di quando sai già che è tutto perduto e domani sarai con Satana a servirgli il pasto. Non vedo vie di uscite o miracoli possibili. Ma c'è qualcosa che dentro me si ribella, come un urlo antico. Un urlo  che rivendica tutta la giustizia, tutto ciò che io non potrò mai essere. Vorrei andare oltre il fondo. Dire che non è abbastanza. Lo sapete voi? Ho guardato tutti i fondi delle bottiglie, dei bicchieri e gli otri di questa città per vedere se sul fondo qualcuno ha lasciato la risposta. Perché grido e piango persino quando sono ubriaco?
L'altra sera barcollavo verso casa. Avevo bevuto più del solito e mi avevano cacciato via.
Gridavo per strada e dicevo a tutti che non è vero, che ho mentito  per moltissimo tempo a me stesso, è tutta una menzogna. Ognuno ha una rivoluzione dentro, ognuno deve combattere la sua guerra.
Non basta una bottiglia di vino, nemmeno due o tre. Non basta nemmeno alzarsi dal letto, ci vuole di più. Urlavo: " Cercate la risposta sotto il fondo dei bicchieri e bevete in fretta!".
Sono morto la mattina dopo. Avevo una bottiglia in mano e la tenevo stretta. Ero morto, ma la tenevo stretta sul fondo.

domenica 27 marzo 2016

Vite di Praga

Sono nato senza nome. Alcuni hanno la fortuna che i genitori trovino il tempo per pensare al loro nome, io non l'ho avuta. Non ne ho mai fatto un dramma. Certo, mi sarebbe piaciuto averne uno, questo certamente devo ammetterlo, però si può fare anche a meno. Alcuni nascono come numeri, con i numeri stampati sul viso, altri con il nome e io, invece, sono nato con la mia carne e basta. Con i miei due occhi e il mio mento e niente di più. Senza che nessuno mi chiamasse. Per numero o per nome, nessuno in questo maledetto mondo si è preso la briga di chiamarmi. 
Sto qua sul ponte. Mi faccio i fatti miei spesso, perché capita non di rado che mi stanchi di chiedere. Mi metto con le braccia conserte appoggiato al muretto e guardo il mio fiume. E' mio perché io per primo lo sveglio ogni mattina, ancora prima che lo faccia il sole. Lo chiamo per nome e lui vorrebbe dormire ogni volta qualche minuto di più, ma io insisto e lui riprende malvolentieri il suo corso. E sono sempre io, che il nome non ce l'ho, a pronunciare il suo e dirgli quando viene la notte che può riposare perché non c'è più nessuno in giro per la città.
Accidenti capisco l'impegno per il nome, ma almeno delle scarpe avrebbero potuto procurarmele! Qua fa davvero freddo e la gente gira coperta dal naso alle caviglie due stagioni su quattro; io giro con i piedi nudi, quattro stagioni su quattro, comprese le feste e i lutti. Io santifico i giorni e li maledico sempre a piedi nudi. 
A volte, quando è buio e rimango solo io, mi chiedo se siano più importanti le scarpe o il nome. Mi dico proprio: "Se ti facessero scegliere, tu cosa sceglieresti?". Non mi sono mai dato una risposta. Sarebbe bello avere entrambi, ma chi non ha niente riesce ad accontentarsi e dare valore persino a quel niente. 
Mangiare devo mangiare però. Mi inginocchio e chiedo. Molti, anzi quasi tutti, credo pensino che io mi metta lì solo per i soldi. Certo, sarei un bugiardo a dire che i soldi non importano a nulla. Ma ci sono sguardi, sempre più rari, che valgono più delle banconote che io non ho mai nemmeno toccato. Mi rimangono nella testa per delle giornate e poi scendono al cuore. E' sempre un piacere farli scendere al cuore, stanno lì per sempre e nulla li può turbare. 
E' davvero incredibile come ci si possa sentire soli anche, o forse soprattutto, quando si è circondati da moltissima gente. Mi sono sempre immaginato come un'isola. La fiumana di gente come una corrente contrastante, che mi sbatte di qua e di là. Alle volte dentro questo naufragio continuo intravedo quegli sguardi, spesso di persone distratte, che improvvisamente si riscoprono con tutte le loro paure, e io mi aggrappo a quelli. A quella umanità che alle volte straripa dagli occhi di uomini distratti che riscoprono la loro anima. Io, sulla mia isola, grido e cerco di farmi vedere. Ci sono stagioni che mi sento come un naufrago, di quelli che intravede le navi, ma non ha abbastanza voce e forza per fermarle.
Mi sono inginocchiato, per l'ultima volta. Il freddo e la solitudine mi hanno ucciso. Sono morto chiedendo. Non si è fermata nessuna nave quel giorno, nessuno ha fatto tappa sulla mia isola. Il fiume scorreva veloce e anche la gente andava di fretta. Ho urlato, ma mi era rimasto solamente un filo di voce. Sono morto e nessuno si ricorderà di me. Questi che non avranno mia memoria sono gli stessi che hanno sempre pensato, vedendomi, che io volessi del denaro. Sono sempre loro, sempre questi, che non hanno mai voluto capire nulla di me: io ero inginocchiato perché cercavo qualcuno che mi chiamasse per nome.  
Ho avuto tempo di pensare a come avrei voluto chiamarmi e non ho mai avuto il dono della sintesi. Ho capito mentre la morte mi abbracciava che non vi sarebbe stato spazio sulla lapide per il nome che mi ero scelto. I miei genitori erano stati saggi. Forse nemmeno loro erano così parsimoniosi con le parole.
Io sono l'isola della città, la sentinella del fiume e il guardiano del sole. Sono un cantastorie senza nome e senza storia. Ho due piedi infreddoliti, non ho le scarpe. Sono l'uomo dalle mille avventure che non vuole raccontarvele. Sono il narratore dalle labbra screpolate che grida ai margini della strada e non viene udito. 
Io sono il mendicante sconfitto. 
Sono il cittadino di Praga divorato dall'indifferenza. Sono morto elemosinando un nome.
Le mie lacrime le troverete nella Moldava. Per il fiume sono stato quello che il gallo è per il mattino. 
Ho raccolto ogni sguardo sincero, li conservo avidamente.
Piangi città di pietra. Le mie lacrime sono sul letto del fiume che ora non si vorrà più svegliare.
Sono morto senza nome, con il grido sulle labbra. 

martedì 1 marzo 2016

Preghiera [XVI]

Nasce e matura
il giorno mio,
sopra la casa solitaria.
Il gallo ha cantato.
Adempiuto il suo compito,
di nuovo adagiato,
ha passato assonato
il testimone del Mondo.
Nel mio giorno,
quando ogni cosa si sveglia,
si prega la vita;
Si implora la morte 
di tardare ancora,
di dormire un'altra notte.
Perché molte sono le cose
che ancora riposano nell'ombra,
nell'oblio più profondo
da riportare alla luce del sole.

mercoledì 24 febbraio 2016

Scendo dal treno. Ti porto una lettera e ti dico di partire

Partivo quel giorno ed ero già in viaggio. 
Faceva un gran caldo e la signora che stava proprio di fronte a me in treno continuava a muoversi in modo fastidioso, sia per me che per lei. 
Mi piace sedermi solitamente sul sedile di fianco al finestrino e guardare le rotaie: osservare la strada che faccio e la storia che mi lascio alle spalle.
Leggevo, ed ogni tanto alzavo lo sguardo, distratto dal rumore dei vagoni che cercavano di procedere tutti assieme, come fossero un gregge. Indispettito dai movimenti di quella signora impaziente che avrei strangolato volentieri con le mie mani, se non fosse stato per quei suoi due occhi.
Due occhi. Erano blu. Quel blu del mare che fa paura, del mare dove c'è solo lui e il suo blu. 
In un attimo ripensai a quella ragazza che avevo conosciuto tempo addietro, prima l'avevo vista e poi le avevo parlato. Non capita sempre così, spesso è il contrario: prima si parla con le persone e poi le si vede bene. 
Io invece l'avevo solo vista bene, perché a parlare non ero davvero un granché, facevo una gran fatica a guardarle in faccia le persone e nemmeno facevo apposta, ma proprio non riuscivo e mi dispiaceva. 
Aveva proprio quegli occhi blu, del cielo prima che mandi la pioggia a secchiate. 
Non aveva solo il blu negli occhi, ma anche un tremendo dolore. 
Sì, d'accordo, la vita non è rose e fiori per nessuno (tranne per quelli che le rose e i fiori li vendono da mattina a sera), ma a lei la vita aveva fatto davvero un gran male. Sono quei mali che cammini per la strada e la gente  non li capisce. Stai seduto per delle ore e il mondo non capisce. Ascolti una musica bella, una poesia ben scritta e dovresti essere felice, ma non lo sei, almeno non come dovresti, perché quel grande dolore te lo porti sempre appresso, come al guinzaglio, e il mondo non capisce.
Sono quei dolori che ti ritrovi a piangere anche quando non dovresti e lei, mondoboia, di lacrime ne aveva fatte uscire da quegli occhi cristallini! Ma dopo un po' si era stancata e persino le lacrime si erano stufate di tutto quel via vai e di tutte quelle discese, e si erano fermate. Questo era il motivo del blu: tante lacrime tutte in poco spazio.
Avevo chiuso il libro senza nemmeno accorgermi. Una cosa mi stupiva in quei giorni, una cosa meravigliosa a cui non avevo mai dato grande importanza: il libro tu lo chiudi e la storia rimane lì; i personaggi si fermano e tutto rimane immobile. Quanti attimi interrotti, quante disgrazie non concluse e amori non ancora dichiarati! Mi divertivo a pensare al povero Don Chisciotte, per alcuni, ancora incastrato nelle pale del mulino, alla bella Giulietta non ancora morta e alla vita di quegli uomini prima dell'arrivo di Innocent Smith, prima di quel gran vento di novità.
Avevo chiuso il libro e avevo interrotto tutto senza nemmeno essere dispiaciuto.
Pensavo a lei e al suo dolore, al blu, al mare. Mi dicevo che è così per tutti, ma per lei in modo diverso.
Iniziavo a costruire dialoghi con lei nella mia testa e le spiegavo che doveva pensare alle barche : anche loro hanno un gran dolore. Quando il pescatore arriva in porto, dopo giorni di delusioni e bestemmie, decide di fermarsi un poco sulla terra ferma e lascia andare l'ancora. 
Una gran sofferenza l'ancora per una barca, non trovi? E' un po' come il tuo dolore. Ti tira giù, nel mare nero dove non vuoi andare. Ci provi a liberarti, ma puoi solo aspettare. Attendere che il pescatore si decida a tirarla su e ripartire.
Un gran dolore l'ancora, no?
Non si può dire che sia del tutto inutile, però alle volte sarebbe meglio se non ci fosse.
Pensavo alle barche, ai pescatori e ai suoi capelli. 
Erano rossi, ma ognuno di essi disegnava parte dell'autunno.
Realizzavo solo in quell'istante che tutta quella ragazza era una sinfonia di stagioni: i capelli come le foglie di ottobre e di novembre, gli occhi il mare salato dell'estate, il suo sorriso come la rinascita che porta con sé la primavera. Il suo dolore. Il suo dolore: il gelo dell'inverno che non risparmia nulla.

-E finalmente siamo arrivati!- esclamò la signora.
- Non ne potevo più di questo caldo, l'aria condizionata in questi treni non si sa nemmeno cosa sia!-
aggiunse.
Io non davo cenni di risposta e pensavo ancora alle stagioni e ai loro dolori e ai pescatori e alle ancore e ..
- I libri non si chiudono così diamine!- disse sollevandone la copertina.
- A maggior ragione i libri belli così. Lo ha finito?- chiese.
-No, non sono nemmeno arrivato alla metà- biascicai.
- Lo legga, lo legga! Lo finisca, è una gran bella storia quella!- suggerì alzandosi soddisfatta dal suo posto.
-Lo farò. Lo farò senz'altro.-

Scendendo dal treno, facendo quei pochi gradini che forse nemmeno esistono, ripensavo a lei. E al mio libro. Volevo tornare a casa e leggere, riaprire il libro e leggerlo fino ad arrivare alla parola FINE. Perché le storie non si lasciano mica a metà. Don Chisciotte sarà scomodo appeso sul mulino, no? Giulietta no, ma questa è un'altra storia.
Scendevo dal treno e pensavo a lei e le dicevo che questo è il tempo in cui il pescatore ritorna e ritira l'ancora, è il tempo in cui si salpa e forse non si attraccherà più. Sapendo che l'ancora è lì dietro, ma che c'è un mare da esplorare, una vita che chiama.
E' proprio una gran bella cosa questa faccenda che le storie si possono riaprire ovunque, persino in mezzo alla gente o quando si scendono i gradini, e tutto ricomincia a muoversi e la barca ritira l'ancora e parte.
Ero felice. Non erano più tanto scuri quegli occhi.




martedì 16 febbraio 2016

Se è per lei, non è furto

Se è proprio vero che l'occasione rende l'uomo ladro, beh, lui quella mattina era senza ombra di dubbio il re dei briganti. Aveva rubato una di quelle cassette di fragole che il fruttivendolo prima di mettere fuori per i clienti guarda ed esita un poco trattenendo la mano, domandandosi se non sia meglio portarla a casa dalla moglie, al posto delle rose. Il colore è lo stesso e le rose non si possono nemmeno mangiare; non si spende una lira e la moglie è felice almeno quanto basta per non litigare.
In ogni caso lui era stato decisamente più furbo e lesto; la cassetta il fruttivendolo poche ore prima aveva deciso di venderla e, quando tutti si facevano i loro affari, lui aveva preso con le mani le fragole, la cassetta, l'occasione e il ladro. Aveva fatto un affare insomma.
Ma non erano per lui, sia chiaro. Non era assolutamente uno di quei ragazzini che va in giro a rubare agli altri per sé. La cassetta era per Adele e questo faceva sì che la sue piccole rapine non intaccassero minimamente la sua coscienza. Era puro e bianco come il bucato della mamma, quello appena steso, e ci pensava come se mai avesse avuto una mamma. Il mondo in qualche modo e in qualche osteria malfamata di quartiere lo aveva fatto nascere. Il mondo gli permetteva di mangiare. Ed era sempre il mondo, vigliacco oppure no, a fargli pensare a quel maledetto bucato che non aveva mai visto. Per dirla tutta nemmeno la mamma l'aveva mai vista, però aveva capito  che la mamma era un po' come il bucato: lui non ne aveva esperienza, ma per sentito dire sapeva che da qualche parte, non lontano, esistevano le mamme e i bucati.
Camminava di buona lena stando attento a non dare scossoni al cestino per non ammaccare la frutta; se qualcuno si fosse messo dall'altra parte della strada a chiedere ad ognuno dei passanti cosa secondo loro stesse portando quel ragazzino, credo che nessuno sarebbe stato in grado di indovinare.
Alcuni avrebbero azzardato un signor vino di qualche annata strepitosa, ora mai dimenticata.
Altri qualche strano gioiello dal nome curioso che per le orecchie di quel giovanotto avrebbero potuto essere dei nomi di fantasia, come i bucati e le mamme varie. 
Nossignori, portava una cassetta di fragole che valeva più di tutto il vino di questo mondo. Perché quando uno è innamorato per bene, le cose dell'altro, ovvero la persona per cui venderebbe la vita, le tratta meglio che può; meglio ancora di quando ha premura delle sue. Tutto diventa un dono che non deve essere ammaccato. Dai capelli che siano maledetti se non sono in ordine, alle stringhe e le calze pulite. Tutto un dono. E si fa fatica ad amare, diamine! E' proprio un bell'impegno. Ma il bello non è solo l' impegno, ma il fatto che la fatica ripaga e uno si riscopre ladro di cose che non avrebbe mai rubato prima.
Portava le fragole insomma, perché Adele amava le fragole. 
Appena arrivato sotto casa Moore, che stava tra la villa degli Evans e quella dei Peterson, aveva raccolto uno di quei sassolini che sono messi agli angoli delle strade appositamente per i ragazzi che devono importunare le belle ragazze, e aveva iniziato a fare il suo sporco mestiere. La grazia certamente non era nelle sue corde, ma la mira si può dire che fosse buona. Al primo colpo. Come sempre. La finestra e tutto il resto, con le consuete imprecazioni.

- Mamma dice che un giorno o l'altro ti farà sbattere in prigione se rompi la finestra con i tuoi sassolini!- lo aveva rimproverato Adele uscendo sul balcone. 
- E galera sia!- aveva risposto lui con il suo solito modo di dire le cose, il modo della strada e dell' osteria.
C'erano stati poi quei dieci secondi in cui ognuno formulava nella mente e recitava ripetendo le frasi che mai avrebbe detto per bene, un po' per l'emozione, un po' perché in fondo siamo tutti pessimi attori.
- Ti ho p..-
- Ce ne andiamo- lo aveva interrotto lei, senza lasciargli spazio.
- Come? - e aveva deglutito con quel rumore che provoca sempre una vergogna istantanea e terribile.
- Le cose si sono messe male qui e papà sta perdendo un sacco di soldi; questioni di affari, ma io sono piccola e queste cose non me le vogliono spiegare-
- Ma poi tornate vero? Quando le cose si sistemano intendo.. Tornate? -
- Non credo. Da come parlava papà questa mattina sembra non ci voglia proprio più mettere piede qua. -
- Non c'è modo di cambiare le cose? - 
- E come cambiare? -
- Non lo so. Di solito per strada le persone che incontro io mi dicono sempre che c'è un modo per fare ogni cosa; credo sia solo questione di trovare il modo giusto -
- Tu non puoi capire. Quando mio padre decide una cosa, è così per sempre. E' come se ogni volta si aggiungesse un comandamento ai dieci di base che valgono per tutti -
- Caspita tu devi avere una lista di comandamenti che non finisce più! - aveva risposto lui, che di comandamenti ne aveva solamente due: sopravvivi anche oggi e cerca di non metterti nei guai.
Erano stati in silenzio qualche minuto studiandosi a vicenda. Adele si spostava i capelli dagli occhi quasi a ritmo del vento. C'erano dei grandi sbuffi alternati a momenti di pace quasi solenne.
La pace era fuori certo, ma nel cuore di lui si combatteva la più feroce delle guerre. Adele se ne andava. Era come se stesse per perdere la città. Se ne andava e portava con lei il suo cuore, il cuore di lui, la cassetta, le fragole, i sassolini e ogni minuto di desiderio sincero.
- Ma io ti ho preso le fragole. Una cassetta intera! Neanche una rovinata, le ho controllate io - disse lui con quell'innocenza con cui  si spera di mettere le cose al loro giusto posto, tipica di quell'età. 
- Le ho prese questa mattina e ho fatto anche una gran fila, questo lo puoi dire a tuo padre!- aggiunse lui dimostrando a sé stesso che nemmeno le bugie gli logoravano la coscienza.
- Sei davvero gentile, ma le fragole non faranno cambiare idea a papà -
- E la fila? La fila lo farà ? -
- Nemmeno la fila credo. -
Era brutto quando nelle loro conversazioni le parole diminuivano gradualmente. Era come se qualcosa stesse per morire, come se si stessero per salutare. Ma solitamente si salutavo per poi riparlarsi dopo qualche ora, al massimo dei giorni. Lui si presentava lì sotto casa Moore senza preavviso, prendeva uno dei sassolini che gentilmente il suo amico spazzino faceva finta di non vedere e centrava la finestra. Ma oggi no, si salutavano per sempre. 
Sempre.
Sempre. Sono  convinto che se si mettesse questa parola su una bilancia a due braccia, si sentirebbe all'istante quel rumore di quando le cose pesano troppo, di quando si è sbagliato qualche calcolo; qualunque sia l'oggetto posato sull'altro piatto.
Le cose  erano sempre andate così. Perché dovevano cambiare ora? Forse è proprio vero che le cose belle non possono durare troppo. La delusione nel perderle farebbe troppo male. 

- Adele! Tra cinque minuti si parte!- l'ultimo comandamento. Il più terribile e funesto. 
-Devo andare.. - disse lei con un filo di voce.
- Tieni le fragole, ho fatto molta fila - disse lui porgendogliele in punta di piedi.
- E' proprio un bel rosso, le hai scelte proprio bene. - 
Le parole stranamente crescevano nella loro conversazione.
- Adele! E' ora! - tuonò il padre, pensando di essere qualche dio potente di cui in realtà era schiavo.
- E' ora - disse lei con un filo di voce. 
E voltandosi chiuse la finestra e lui non la rivide più.

Ora, questa storia, potrebbe finire in mille modi diversi: potrei dirvi che lui se ne tornò indietro con qualche lacrima dispettosa che gli rigava il viso, potrei dirvi che lui, al contrario, non fece una piega e che rimase lì impalato, come se stesse per essere fucilato e giustiziato; potrei usare quella dannata fantasia e raccontarvi che, maledetto lui, ogni giorno da quel giorno in avanti rubò una cassetta e con estrema cura la portava sotto casa Moore e la posava ai piedi del balcone, dove lei si affacciava una volta. Dove lei, Adele, apriva la finestra dopo il suono potente del sassolino che faceva centro. 
E potrei aggiungere che corse calciando ogni maledetto sasso sulla via, imprecando contro il Dio dell'amore o il Dio di Adele. Ma questa sera la fantasia la farò usare a voi. 
Vi dirò solo questo: a lui, le fragole, nemmeno piacevano.


domenica 7 febbraio 2016

Una promessa

Le onde si susseguivano dividendosi la spiaggia con un gioco di scrosci e gorgoglii, alternando rincorse e spinte a retrocessioni vergognose ed obbligate. Il mare di notte fa meno paura che di giorno, al contrario di quanto si crede. Ha qualcosa di perpetuo e di vergine che viene violato ogni volta quando sorge il sole e quando questo irrompe prepotente nella vita mondana.
Né io né Eveline avevamo chiuso occhio quella notte. Alle quattro aveva deciso di smetterla di fingere che andasse tutto bene e si era rotolata nel letto verso di me portandosi dietro le coperte e mi aveva detto: "Manca poco. Iniziamo a prepararci".
Alcuni minuti dopo ci eravamo trovati sdraiati a pochi metri da dove le onde finivano di allungarsi. Lei aveva appoggiato la testa sul mio petto; era una cosa che non avrei mai sopportato se fosse stata fatta da chiunque altro, ma Eveline era diversa. Avevo sempre accettato anche le cose che non mi andavano di lei. Perché qualche anno prima ci eravamo fatti una promessa, più grande di ogni singola cosa di lei che io ritenevo fuori posto, piccola o grande che fosse.
Lei mi aveva detto: "Me lo prometti?" e io le avevo risposto di sì. Cos'altro avrei potuto risponderle? Poi lo avevo chiesto io di promettere, e anche lei aveva risposto così.
L'avevo guardata e le avevo domandato preoccupato: "E' per sempre?"
"Certo che è per sempre. O è per sempre o non è. Non trovi?" aveva detto lei.
"Con le promesse funziona così. Quelle sincere e pronunciate con un filo di voce sono come un'eco di un bisbiglio nel cuore di un uomo. Un'eco che porta con sé la parola 'sempre', dalla quale forse nemmeno la morte lo può separare" aveva aggiunto.
Questo mi stupiva di lei: parlava poco, o almeno il giusto, ma quando lo faceva le sue frasi erano sempre così lapidarie che nulla avrebbe potuto cancellarle dalla mia memoria. Ma non era solo questo. Quando uscivano dalla sua bocca sembravano essere così naturali, come se qualcuno tempo addietro le avesse scritte sulle sue labbra screpolate, che lei le pronunciava con un filo di voce, senza nessuno sforzo. Come se niente fosse, e invece erano praticamente tutto.

Ed ora eravamo distesi sulla spiaggia. La sera prima avevamo avuto una discussione che era sfociata in una rabbia feroce. Ci eravamo infilati nel letto senza nemmeno metterci d'accordo su chi dovesse spegnere la luce. Siamo due orgogliosi. La luce è stata accesa per tre ore, ma non ci infastidiva. Ci pesava molto di più quel metro di letto che ci divideva e che eravamo stati noi stessi ad aver scavato. E' così quando si è orgogliosi: si scava la buca, ci si lamenta della terra fuori posto e si passa il tempo a guardarci dentro.
Ero assorto nei miei pensieri quando Eve si era alzata per spegnere la luce.

Ora eravamo distesi sulla spiaggia.
Lei sempre appoggiata e io sempre assorto.
Era chiaro che la spiaggia fosse solo per noi, erano le quattro passate.
Le quattro di notte. O le quattro di mattina.
Era per questo che eravamo sulla spiaggia; per decidere se quella fosse ancora parte del buio o se invece fosse già cosa del giorno.
Eve muoveva i piedi nella sabbia, alzando, quasi ciclicamente, il destro carico di granelli aggrappati alla sua pelle morbida e chiara.
Mancava poco, ma Eve era troppo concentrata ad ascoltare il mio cuore scandire il tempo.
Mancava poco, non si poteva più indugiare.
C'è un momento che non so bene da dove provenga di preciso e a chi appartenga insomma. E' un attimo così veloce che solo i cuori e gli occhi attenti riescono a cogliere.
Se si guarda bene verso l'oceano, dove sembra che tutto finisca, dove le barche vengono inghiottite e la vista si sforza ma non riesce ad andare oltre, esiste un tempo che non appartiene né alla notte né al giorno. Quel momento in cui il buio si fa da parte e la luce tarda a prevalere.
Fu proprio un attimo. Più veloce di un soffio o di un sospiro. Ancora più di uno sparo o di un pensiero. Però io lo vidi per davvero e nessuno poteva affermare il contrario.
"Eve" dissi con un filo di voce.
Continuava a giocare con la sabbia e non diceva nulla.
"Lo hai visto anche tu Eveline?"
Non mi rispondeva.
Siamo rimasti in silenzio qualche minuto e poi lei ha abbozzato un sorriso, come se fosse una prova, come se stesse disegnando la bozza con la matita.
Mi sembra di ricordare che disse più o meno questo: "Noi siamo così. Siamo  esattamente come quel punto che sta tra la notte e il giorno. Se lo spartiscono il buio e la luce, ma nessuno può dire con certezza ' è solo mio'. Siamo così se ci pensi bene. Poche ore fa a letto, nonostante l'abat-jour fosse accesa, eravamo entrambi della notte.
Possiamo essere divisi alle volte, ti potrà sempre dar fastidio che io appoggi la testa sul tuo petto e potrai non sopportare il fatto che io non sappia cucinare, ma non sarà questo l'importante.
Quando sorridi siamo del giorno, eccome se lo siamo.
Ma nessuno potrà mai dire 'loro sono solo del giorno o solo della notte'. Nessuno. Perché saremo sempre un po' in mezzo tra questi due. Sai cosa invece ci fa essere quel momento? Quell'attimo che non è di nessuno se non di chi l'ha creato? Quella promessa.
Quella promessa che tu hai fatto a me e che io ho fatto a te qualche anno fa.
Vuoi sapere perché sorridevo prima?
Perché stavo ascoltando il rumore delle onde, quando si infrangono e poi cambiano idea e fuggono con la coda tra le gambe. Stavo ascoltando e mi sembrava ci fossero solo loro.
Poi ci ha raggiunti un'eco che portava sulle spalle la parola 'sempre'. Noi siamo così".
Non le ho risposto. Cosa diavolo avrei dovuto risponderle? Aveva lo strano dono di zittirmi senza dirmelo.
Le ho dato un bacio in fronte e ci siamo incamminati verso casa, con la tremenda voglia di dormire, inseguiti da una promessa.


sabato 30 gennaio 2016

La sera [XIII]

Ma quando arriva la sera e rimango da solo
mi chiedo cosa ne è stato

del mio giorno passato.
Mi chiedo che cosa è rimasto
se qualcosa ho guadagnato,
ma non mi limito a questo.
Ritorno all'istante
in cui lo sguardo si è alzato,
non per mia volontà,
non per peccato;
nessun istinto animale,
nemmeno un gioco razionale.
Ho sentito vibrare
quel mio cuore ferito,
agitato, scosso e impazzito,
come in tempesta infernale.
Ho cercato di governare
il timone invano,
ma ho lasciato la presa
è fuggita la mano.
Ho compreso che era,
l'istante a cui pensavo,
il momento sublime
tutto, purché vano,
il senso dei miei sospiri,
Del mio affannarmi, delle mie ore:
cuore che cerca il Cuore.

giovedì 21 gennaio 2016

Avevamo I'Irlanda


Lavoravo nella sede centrale della banca, giusto sopra lo studio di Douglas con il quale avevo avuto una discussione il giorno prima riguardo al fatto se la domenica fosse il primo o l'ultimo giorno della settimana. Non eravamo giunti ad una conclusione forse perché, sia io che lui, siamo rimasti sulla medesima posizione di partenza.
Ero tornato a casa verso le undici e avevo trovato Margaret ancora alzata; era seduta sul divano con le gambe incrociate e stava leggendo una delle sue stupide riviste che le regalava il postino per fare colpo su di lei. Un bacio distratto sulla guancia e mi sono diretto subito in cucina. Avevo voglia di bere per vedere se è proprio vero che si può affogare il dolore in un bicchiere o, forse, solo per distrarmi da quel lavoro che ultimamente assumeva sembianze bestiali.
Margaret si era alzata e si era seduta sul bancone di fianco ai fornelli, sullo stesso bancone sul quale mia nonna una volta creava, e non sbaglio il verbo, piatti che invidiavano persino su in cielo.
"Ho voglia di Irlanda" disse lei rompendo quel mio silenzio che durava da quando avevo lasciato chiudersi dietro di me la porta dell'ufficio.
"Irlanda?"
"Sì, potremmo andarci il prossimo weekend; potremmo prenderci due giorni di riposo."
Stavo in silenzio cercando di illudermi che nulla  fosse stato interrotto. Gli occhi fissi sul fondo del bicchiere, perché quando sono meschino non riesco mai a guardarla negli occhi.
"Dai John lo sai anche tu che abbiamo bisogno di una pausa. Torni distrutto ogni sera dal lavoro, che poi nemmeno mi dici cosa fate là dentro! Spesso nemmeno ti sento tornare."
Si dondolava sul bancone che scricchiolava ogni volta che Margaret giocava a spostare il peso.
"Hai un'amante chiusa dentro al tuo ufficio!" disse lei ridendo con un velo di sospetto sopra le labbra. Era una di quelle tipiche affermazioni dalle quali ci si aspetta solo una risposta di consenso. Istanti che paiono infiniti. Sembra quasi che mi inviti a rispondere subito, senza lasciare spazio, senza prendere fiato.
"Sai bene che non posso lasciare il lavoro" le risposi io senza dare peso all'ultima frase.
"Sono solo due maledetti giorni John, due e poi potrai tornare al lavoro. Due e basta. Secondo me non si accorgeranno neanche che sei mancato."
"Magari" sospirai.
"Guardati John! Non hai mai bevuto e ora bevi come un dannato!"
"Sarà"
"John non lo dico solo per te. Anche io ho bisogno di un po' di Irlanda! Non riesco più a dipingere in questa casa, c'è sempre la stessa luce, le stesse quattro mura, le stesse stupide cose" disse lei.
"Margaret tu non hai mai visto l'Irlanda, perché diavolo dovresti averne voglia?"  le risposi alzando il tono di voce. 
"E' proprio per quello J! Perché non la conosco. Ne vorrei un pezzettino anche io, un pezzettino d'Irlanda. Prima che affondi ecco!".
Con questa aveva raggiunto il limite, era già stata una giornata pesante e queste fantasie non la miglioravano. 
"Ma ti senti? Prima che affondi quella maledettissima isola dovrà affondare il mio ufficio, la nostra casa e non so che altro.."
Aveva smesso di giocare sul bancone. Aveva smesso di muoversi e guardava fuori dalla finestra.
Ero stato troppo duro, senza nemmeno volerlo realmente.
Avevo appena buttato giù il terzo bicchiere.
"Margaret"
"Dimmi"
"Cosa ti manca?"
Teneva sempre lo sguardo fisso fuori e mi rispose circa così "John ti ricordi quando tornavi a casa alle sette? E quando il sabato non lavoravi e ci facevamo quelle passeggiate lunghissime?
Non ci lamentavamo ancora del freddo o del caldo. Andava bene così. Che ci fosse la strada.
Che potessimo camminare, io e te.
E io ridevo e mi appoggiavo a te, come fanno le persone anziane; invece ora che non siamo più giovani non mi va più di fare come le vecchiette.
Ti mancano quei giorni John? Ti mancano quelle passeggiate? A me sì.
Dipingevo di continuo e le mie giornate erano molto illuminate.
Ora c'è solo un sacco d'ombra e qualche rivista che faccio finta di leggere perché non riesco a pensare ad altro, non riesco a far rivivere il passato. Non riesco John, ci provo, ma accidenti non ci riesco. 
Vorrei solo una lunga passeggiata in Irlanda."
Stavo con lei, ma non ero lì. Riguardavo a quei giorni trascorsi con Maggy ormai morti. 
La vidi per primo quella lacrima, quella che le scese dall'unico occhio a cui potevo aggrapparmi. Chissà da quanto stava lì, quella lacrima narcisa. Ne valeva cento. Valeva tutte quelle di settimane, mesi, anni di dolorosa finzione e di immutato tacere.
Io le sorrisi. Era un sorriso che trattenevo da troppo tempo, proprio come la sua lacrima.
Lei lo capì. Come il primo sorriso tutto mio che lei sola aveva conosciuto, come prima di chiederci quale fosse il nostro nome, come prima di conoscere l'infanzia dell'altro.

Ci siamo svegliati.
Maggy stava dipingendo fuori in balcone e quel vento, che in realtà era una brezza leggera, le muoveva il vestito che le dava parvenze divine.
"John alzati! Va bene che è domenica, ma non puoi stare tutto il giorno a letto. Dobbiamo andare a camminare, non ti ricordi?"
"E' domenica?" chiesi io.
"Certo che è domenica John! Come hai fatto a dimenticarlo? Dopo il sabato viene la domenica. J sei il solito pesce rosso, saresti capace di dimenticarti anche il mio nome."
"No, non mi dimentico Maggy, è solo strano."
Io non so se la domenica sia il primo o l'ultimo giorno della settimana, ma avevamo l'Irlanda, avevamo il nostro pezzo. Ognuno il suo.
Avevamo capito senza dircelo. Il colore si stendeva da solo sulla tela e non faceva né troppo caldo per essere insofferenti, né troppo freddo per irrigidirsi. Maggy sorrideva come un volta, come nella sua infanzia.
Eravamo pronti per la passeggiata.
Avevamo l'Irlanda.

domenica 17 gennaio 2016

[VII]

   Immediatamente fuggo
il freddo della distanza estiva.
Muoio e rinasco ad ogni addio.
Voglio ciò che accade,
desidero quel che non si dice.
Piango le lacrime del mondo.
Le travaso
e le conto.
Ne peso il dolore
e ritorno.
Non fuggo più.
Improvvisamente mi fermo
e dico "Sì".

giovedì 14 gennaio 2016

Dovrei [IV]

Dovrei essere forte
ma non lo sono.
Dovrei esser giusto,
ma non riesco.
Potrei esser vero,
ma sono falso.
Ogni cosa di me
ogni cosa di me che dovrebbe essere,
accanto a te,
non è.
Perché tu sei così
e io non sono ciò che dovrei.
Ma qualcosa,
una scintilla nella notte,
una parola nel posto sbagliato
mi dice
sussurra
"Accanto a lei
sei tu
con il tuo nome
e nessun aggettivo"

giovedì 7 gennaio 2016

Una Cattedrale tascabile


                                      Ho costruito, come una Cattedrale,
                                             la mia poesia,
                                                  per te.








Questa è un'idea, una proposta, un esperimento e tante altre cose che ancora non so.
E' il tentativo di fermare qualche ricordo, come si fa con le foto quando le si appende al muro.
E' una preghiera affinché ogni cosa resti così com'è e perché tutto cambi.
Che quel desiderio non muoia mai.
Un tentativo di dare un nome alle cose, questo fa la poesia: trova nuovi nomi per ciò che ci circonda ogni giorno, dalle cose più banali alle cose complesse. Credo infatti che il primo atto di poesia di un padre e di una madre sia dare un nome al proprio figlio e la seconda esperienza meravigliosa sia trovargli un soprannome. Perché l'uomo vuole continuamente trovare nomi nuovi, vuole rinominare la realtà.
Perché le cose si conoscono solo se le si chiama con il loro giusto nome.
Per questa raccolta ho scelto queste parole: "Una Cattedrale tascabile".

Nota per il lettore: quando gli uomini saggi hanno costruito le cattedrali, le hanno costruite bene. In maniera eccelsa.
Qual è il segreto di questa bellezza? Ogni singolo particolare, anche quello più nascosto, è stato lavorato con la medesima cura con la quale gli scalpellini lavoravano la facciata.
Con la stessa identica cura.
Perché? Se una cosa è nascosta e non si vede, nella nostra logica, se non è sotto gli occhi di tutti, è inutile che sia bella.
No. Questa è la logica dell'uomo povero. Questa è la non-logica di chi non ama.
Ogni particolare con la stessa cura di ciò che è ben visibile.
Non si tratta di perfezionismo, non è questione di minuzia tecnica.
E' rendere gloria a Dio e per Dio ogni particolare è, e deve essere, meraviglioso.
Ho provato a costruire, con qualche verso sciocco ma sincero, una Cattedrale; per te.
Ti ho guardata e ti ho studiata e ho posato una pietra dopo l'altra.
Tu questa Cattedrale la potrai custodire dove vorrai.
A tuo piacimento sarai libera di collocarla dove ti farà comodo, in qualsiasi città; e di farla visitare soltanto da coloro che ritieni lo meritino.
Perché tutto questo è per te ed è ciò che si definisce "Una Cattedrale tascabile".