mercoledì 28 ottobre 2015

Tu non morirai

Avete mai detto a qualcuno "Tu non morirai" ? 
Tu, che ora sei qui. Tu, ovunque andrai, non morirai. 
Sapete che è l'impresa più grande che uomo possa compiere? Vale più di qualsiasi bacio. Di qualsiasi abbraccio. Più della liberazione di un popolo dalla schiavitù. 
Più di qualsiasi libertà, di qualsiasi discorso.
Sono certamente le parole più oneste che si possano dire. Le più sincere. Le più naturali. Perché non sono del mondo. Accidenti non sono affatto di questo mondo! Sono dell'anima. Sono certamente dell'anima. 
Queste parole.
Lottano contro ogni sforzo del tempo e della morte che a tutto e a tutti si vogliono aggrappare. E trascinare ogni cosa con loro. 
Precedono e superano il tempo  stesso perché esse non sono del tempo e nemmeno della storia. 
E quel dolore così grande, quella ferita tanto aperta, tanto lancinante, così viva, rimarrà dolore e non disperazione. 
Diamine non è affatto una consolazione! 
È la certezza di un abbraccio che mancava da tempo che ritrova le braccia che lo accolgono di nuovo.
Ora non nego a me stesso che manchi un sorriso a questo mondo, ma devo sopportare. Se no si affoga. 
Ma le parole a dirla tutta sono proprio inutili. Tranne quelle giuste. 
Perciò io te lo dico tra le lacrime e questo cuscino così inutile, te lo dico con un filo di voce e con il dolore che sale dalla gola e la speranza che mi accarezza le guance: "Tu, ora, ovunque andrai, che tu stia lontano o vicino, che tu sorrida o meno, che non ti accorga o invece ci faccia caso, tu non morirai.
 Non è nemmeno una promessa.
 Tu, amico mio, oggi, domani e per questo mondo, non morirai. 
La pioggia. 
Milioni di lacrime del cielo. 
Tu non morirai. 
Sorridi ancora una volta 
Tu non morirai.

mercoledì 7 ottobre 2015

Ti racconto di me. Tra la folla e ai margini della strada

Se dovessi raccontarti qualcosa di me, della mia vita, di ciò che sono stato e che ora sono, credo partirei da quel giorno. Ti parlerei di quel posto e di quella gente.
Di quell'ora che nella mia testa e nel mio cuore corse veloce come un minuto.
Partirei nel raccontare da quegli odori che inondavano le vie e delle centinaia di spezie che gareggiavano fra loro in un orchestra di varietà e di soddisfazioni per ogni naso attento in circolazione.
Una gara. La vita mi appariva così.
Una gara a chi la sapesse corteggiare meglio. E io, sia chiaro, di vite ne avevo corteggiate molte e di molto strambe e il primato lo volevo per me. Il premio: la felicità. O almeno così credevo.
Le strade ricolme di carne, viva e morta. Esposta e nascosta. Ali,  petti e poi occhi, mani e piedi. Sembrava che il mercato avesse attratto ogni anima di quella città con il richiamo del banchetto, della festa, e la gente si accalcava con grandi aspettative. Cappelli di paglia si muovevano come un fiume.
Io ero tra la folla. E mi muovevo con lei.
La possibilità di fermarsi era molto scarsa dal momento che persino gli angoli di ogni vicolo che con l'occhio potevo raggiungere erano stati riempiti da cianfrusaglie o occupati da qualche mendicante che vedeva come manna dal cielo, o dono di qualche dio così a lungo odiato, quello sciamare di gente.
Ma non ero intenzionato a fermarmi. Figuriamoci.
Sentivo suoni di cui non sapevo il significato, grida e parole sussurrate che nella mia mente potevano avere lo stesso significato e la stessa importanza, ma mi sentivo più a casa di quanto mai lo fossi stato.
I piedi inciampavano nei gradini delle vie strette e alcune signore mi guardavano come se non avessero mai incontrato prima un uomo in vita loro.
La mia fronte grondava, ma ci feci caso solo dopo, quando una goccia, avendo percorso il suo lungo tragitto a cavallo dell'osso del naso, era caduta tra la barba.
Si proseguiva a passi lenti e molo ravvicinati; la ressa decideva la direzione: come il vento per le foglie, soffi e sbuffi improvvisi a spostare centinaia di cose e persone. Era così difficile non farne parte. Così naturale.
Non vorrei dimenticare di raccontarti di come giocava il cielo e del sorriso delle nuvole.
Ci sono giorni in cui queste si dispongono proprio come le avresti disposte tu se ti fosse stata data la possibilità di farlo. Giorni in cui persino il cielo decide di colorarsi della tonalità che piace a te. E il Sole non disturba, ma nemmeno si nasconde. Partecipa.
E quel giorno, ne sono più che certo, era stato messo in mano mia il pennello per dipingere il cielo; non me ne capacito ancora di come quel compito possa essere stato affidato anche solo per una volta ad un inetto come me, ignorante in materia, e ancora meno di come quel dipinto fosse magnifico. Tanto che la gente sollevava lo sguardo per distrarsi da tutta quella quotidianità.
Ma sono proprio questi i giorni in cui ci si getta a rotta di collo nella folla! Non trovi? Si lasciano andare le gambe e si smette di scegliere.
Tra la calca si va avanti a spintoni e sguardi frammentati e brevi che sembrano infiniti, forse perché più intesi di quelli a cui ci abituiamo.
Si è così vicini che ci si sente parte di un tutto, di cui nemmeno si sapeva l' esistenza prima.
L'odore e il passo dell'altro. La salita e la discesa e un sasso fuori posto.
Quando voglio scoprire qualcosa di diverso mi tuffo tra la gente e apro gli occhi.
E le immagini sono così veloci che è estremamente difficile ricordarsi tutto. Anzi, spesso ci rimangono impresse cose di poco conto che mai avremmo ritenuto importanti al momento; ma quando poi le si ricordano a distanza di anni si smarrisce il senso di quelle giornate così belle, delle situazioni memorabili; ci si scorda degli attimi che sono rimasti attimi e si finisce per dare importanza al particolare sciocco.
Ebbene io ero tra la folla.
E quel senso di appartenenza che mi ronzava in testa non so dirti se fosse positivo o negativo, ma c'era.
Non so nemmeno dirti cosa mi fece avvicinare così tanto alla città quel giorno, ma io ero lì.
E su due piedi, proprio lì, su due piedi, pensai a chi ero. Mi chiesi chi ero.
Ora tu immagina che per strada ti fermi uno sconosciuto e ti chieda chi sei. Le parole in questo caso escono a tentoni dalla bocca, ci si perde in un batter d'occhio.
Mi sentii così! Esattamente così. Preso alla sprovvista da me stesso.
E' così difficile raccontarsi! Forse è anche per questo che impiego così tanto tempo a scriverti questa lettera, ma l'impresa è notevole e definirla ardua sarebbe un eufemismo.
In tutta questa confusione nella mia testa e nel mio petto sentivo un suono ben distinto che attraversava l'aria, le case e persino i panni stesi e i fili che li sorreggevano annoiati dal peso; si prolungava e correva entrando dalle finestre spalancate delle camere e da quelle appena socchiuse , si fermava un poco, per poi uscire dalle porte e gettarsi tra le voci sovrapposte della città a sfidare il rumore. Un suono unico; dolce, ma non per questo debole. La musica. Un violino.
La musica che rincorreva la città e la città rincorreva sé stessa, un'incomprensione continua.
Ma che gioia la musica. Quale nobiltà. Mai sente la necessità di urlare per farsi sentire e indubbiamente credo sia l'esperienza più libera che io abbia mai incontrato lungo il tragitto, lungo il mio tragitto.
Quando poi la si sente in lontananza e si è costretti ad aumentare il passo per non perdersi qualche nota, addirittura a sgomitare e farsi spazio a seconda di quanto la giornata è stata cattiva. E si arriva persino ad augurarsi che la gente la smetta per qualche istante di parlare, perché diamine la musica è un'altra cosa! E non si può rovinarla perché la senti come tua. Proprio come senti tuo un vestito che indossi o un oggetto che ti porti appresso, forse anche di più.
E io correvo o così mi sembrava.
Quel suono sembrava più vicino, aveva appena superato saltando quella fila di mattoni e io, sembrerà impossibile, lo inseguivo con gli occhi prima che con le orecchie.
L'ho raggiunto a fatica e mi sono fermato.
All'angolo, tra una casetta che aveva raccolto le sue ultime forze dalle fondamenta per assistere all'esibizione di quel giorno, prima di crollare dopo anni di servizio alla gente e alla città, e una discarica improvvisata  di piccole dimensioni che vedeva sedie appoggiarsi a vecchi oggetti rotti, stava lei.
Lei. Sì. Il mio particolare, tutt'altro che sciocco. Del mio ricordo lei è il particolare.
Una ragazza che accarezzava le corde del violino quasi per non far loro un torto e si cullava tra le braccia del suono che usciva dal suo strumento.
Rapito. Non sono in grado di stabilire se sia la parola esatta per quella circostanza, ma al momento trovo solo questa. Sì ero decisamente rapito. Ero lì, ma qualcuno mi stava portando via.
Eravamo lì in pochi ad ascoltare, tre o quattro anime di cui magari due nemmeno stavano ascoltando attentamente e pensavano alle loro faccende, a ciò che avrebbero dovuto fare dopo.
Ma quale dopo? Quale prima? Quante volte si indugia davanti al presente!

Io realizzai chi ero.
Il presente in quel preciso istante lo acciuffai per la coda e lo guardai in faccia.
E realizzai cosa ero stato e cos'ero in quel momento. Chi ero.
Capii una volta per tutte.
Però è assurdo notare che quando si pensa di aver aperto gli occhi definitivamente e di aver svelato a sé stesso il segreto del mondo, ci si accorga che in realtà si è scoperta solo una misera parte di quel mondo così vasto. Bisogna ritrovarsi continuamente.
Ebbene, in quell'istante, ritrovai l'unica miserabile e minuscola parte di quello sterminato mondo che già pensavo di conoscere: me.
E capii che non posso stare troppo a lungo tra la gente, perché quando questa guarda per terra a me capita di alzare lo sguardo verso il cielo e voler dipingere. Per raccontare ho bisogno del silenzio.
E che nonostante non mi voglia fermare, un po' per caso e un po' di più per destino, prima o poi mi fermo.
Compresi che non voglio smettere di scegliere, nonostante sia più facile, e che nemmeno desidero essere trasportato dal vento o dalla folla. Perché alle vie affollate preferisco le case che provano a stare in piedi. Al rumore preferisco la musica. E la inseguo, se sono costretto mi faccio anche spazio e tiro fuori il coraggio che non ho mai avuto, se può servire.
Tra la calma e la fretta sceglierò sempre la seconda.
Notai inoltre che la vita mi era sempre apparsa estremamente strana, ma che non la potrei mai immaginare in un'altra maniera.
E io tornai tra la folla, perché la vita è sia musica che rumore.
E non è tanto il fatto di eliminare il rumore, ma di cercare il suono che si nasconde tra le vie della città e rincorrerlo. E fermarsi ad ascoltare.
Perché, se tendi l'orecchio, mentre stai tra la gente, lo sentirai il suono che attraversa le case e le porte. Si nasconde dietro gli angoli più nascosti e nei luoghi meno aspettati.
Si tratta solo di iniziare a corrergli dietro.