sabato 26 settembre 2015

"About Davis"

Ho perso il gatto.
Maledetto.
Io ho sempre odiato i gatti.

L'ho ritrovato.
Sono salito sulla metropolitana.
Con il freddo che entra dalle caviglie nude e invade le gambe.
La gente mi guarda in modo strano. Forse per il gatto, forse perché io sono ciò che si definisce "strano".
Ho perso di nuovo il gatto.

Ho vagato parecchio.
Con qualche canzone nella testa.
Ovunque andassi con qualche canzone scritta in maniera sincera.

Dormo su letti che non conosco.
Di amici che non sono miei amici.
Se mi sveglio ogni mattina senza averlo chiesto ci sarà un motivo, ma qualcuno mi sa spiegare quale sia?
Cerco un posto caldo in cui dormire questa notte.

Un Sol e poi un Do. Poi viene sicuramente un Re, a seguire.
La chitarra è onesta, almeno lei.

La vita non mi ha dato molto e io non le restituisco nulla.

Abbracciami forte.
Ciò che tocco diventa polvere.
Canto dove posso e quando posso.
Sempre.
Canto persino quando la bocca è chiusa e le labbra serrate dal gelo.

Qualche raggio molesto entra dalla finestra dell'ennesima stanza sconosciuta.
Ma questo non è il mio Sole.
Non è la mia luce.
Credo non sia nemmeno la mia vita.
Non basta qualche raggio timido a farmi cambiare idea.

Mi esibisco.
Solito sgabello che traballa.
Solito maledetto microfono che riferisce il falso.
Parla di me e io sono dannatamente falso.
E' una vita che fuggo da me stesso.
Non mi voleva nemmeno il gatto.

Fa freddo.
Fuori e dentro la porta del cuore.
Qualche canzone folk deprimente con la speranza di scaldare un po' questo cuore di ghiaccio.

Ci sarà forse qualche anima in questa città che mi vuole bene e che non mi odia!
Forse una.
Con ogni probabilità nessuna.
Questa notte non dormo, sono stanco di elemosinare.
A volte persino la mia dignità si ribella.

Voglio lavarmi.
Lavare via questa sporcizia.

Mi rimane la chitarra.

Ancora lo sgabello e il solito stramaledetto locale. Quattro pareti, un palco, un paio di scimmie addestrate che si esibiscono e della birra scadente. Pazzesco! Neppure la birra è più buona!

Ho ritrovato il gatto.
In realtà si è ritrovato da solo.
Si ricordava la strada di casa.
Meglio di me.

Ho lasciato i miei problemi (infiniti) sul fondo del bicchiere.
Ubriaco, ho urlato.
Mi hanno mandato via.

Ultimo sgabello.
Ultima possibilità.
Rimane solo un rammarico.
Se avessi avuto le ali, se le avessi avute, sarei volato lontano. Non so dove di preciso, ma lontano.
Perché lontano per me è sinonimo di salvezza. Infatti non ci vado mai.
Se avessi avuto le ali sarei tornato dove sono stato felice un tempo.
Felice cosa vuol dire?

La mia musica non vende.
La mia vita ancora meno.

Lascio lo sgabello.
Lascio la musica.
Lascio il Sol.
Lascio il Do.
Lascio il Re.
Lascio la chitarra.
Lascio il palco.
Abbandono persino il locale.
E come se non bastasse la mia dignità.
Mi rimane il cappotto.


Un paio di pugni.
Finisco per strada.
Per terra.
Al freddo. L'unico vero amico che io abbia mai avuto, il freddo, capace di dirmi soltanto la verità; di sbattermi in faccia tutta quanta la verità con raffiche di vento prepotente.
La verità che io sono tale e quale a lui.
Ciò che tocco, abbraccio e bacio si congela.

Entra dalle caviglie.
Dalle maniche poco strette.
E anche dai buchi del cappotto troppo larghi.
Fa male.


Se avessi avuto le ali...



martedì 22 settembre 2015

Il funerale quotidiano

La vita è incredibile. Non per forza bella, per lo meno non per tutti. Peró è sicuramente incredibile come possa nascere una storia da un pó di forfora e da una chioma di capelli unti.
Che schifo direte voi. Ho detto così anche io.
Tutti i giorni però la signora prendeva l'autobus. Non ad un'ora precisa, niente di prestabilito. Però ci saliva. Il suo modo di vestire era molto discutibile. Non so se si vestisse male o bene, non me ne intendo in materia. Però faceva discutere, questo è un dato di fatto. È strano perché le cose che fanno discutere solitamente o sono importanti o sono strane e lei non pretendeva di essere importante affatto, ma strana lo era eccome. Inizialmente una sensazione di ribrezzo e un certo distacco. Da quei capelli così unti che le ciocche si univano tra di loro in maniera piuttosto naturale.
Aveva perso il senno da anni. Rideva nelle giornate cupe, quando il cielo minaccia grandi aquazzoni; si infuriava con il sole. Piangeva di gioia e rideva per la tristezza.
Il naso lungo andava a toccare le labbra imbevute di rossetto che non conoscevano il sapore di un bacio sincero da troppo tempo.
Aveva perso il sonno.
Da quando lui se ne era andato.
Era con lei.
E poi un giorno se ne era andato. E le era sembrato che fosse accaduto come fanno i fulmini. Ci sono e dopo un attimo non ci sono già più.
Che tutto il tempo passato insieme a lui fosse terminato come quando per due giovani amanti finisce una notte. Un giorno ti svegli e sei solo. Come quando si è nel grembo.
Solo.
E di persone se ne vedono per strada: bambini, vecchi, adolescenti. Alcuni interessanti, altri innocui. Ma sei solo.
Cerchi un volto, ma non trovi nulla di simile a ciò che vai cercando.
Sì, e poi ho scoperto dove andava. Ogni giorno, quando la mente per qualche secondo riacciuffava il senno perduto, si recava al cimitero per posare un fiore sulla tomba di lui.
Aveva perso la ragione.
Aveva perso lui.
Ma non il suo ricordo e ciò che ne era stato del tempo trascorso.

E il giorno prima di lasciare questo mondo l'aveva guardata e le aveva accarezzato i capelli. Aveva deciso di non lavarli più, da quando lui li aveva accarezzati in quel modo. Aveva deciso di aggrapparsi a quella carezza.
E ora io non provo più disprezzo. Sebbene non sappia nemmeno il suo nome io ogni giorno spero di incontrarla per chiederle come fa. Per chiederle come si fa a credere e come si fa ad aggrapparsi ad una carezza.

autore: Sebastiano Colaluce

mercoledì 16 settembre 2015

Itaca

Quella mattina si era alzato di soprassalto. La luce entrava con determinazione dall'oblò di fronte a lui e la cuccetta in cui dormiva sembrava essere più stretta che mai, tanto che quando si coricava ogni sera tarda doveva piegare le gambe per far sì che quel buco potesse contenere tutto il suo corpo.
Era un giorno strano in cui la malinconia non gli lasciava nemmeno il tempo di commettere peccato.
Il rumore che saliva dalla prua, quando la nave fende l'acqua era la sua sveglia mattutina. E' il suono che solo un marinaio può sentire per tutta la vita.
E' il suono del viaggio e della fuga, della partenza e del ritorno. Si crea schiuma abbondante e l'oceano si lascia accarezzare.
Era famoso nell'equipaggio. Ogni anima che avesse messo piede su quella nave sapeva ogni cosa che vi era da sapere riguardo a lui. Chiunque avesse camminato in coperta , anche solo per qualche minuto o per qualche ora, e poi fosse sceso e tornato a casa dalla famiglia, prima di addormentarsi ciò che sentiva era la sua voce. Così rassicurante. Aveva qualcosa di sincero che colpiva le persone diritte al cuore e poi quel suono saliva fino alla testa e attraversava con un brivido la schiena.
Quando vi era bisogno di lui, egli non tardava mai all'appuntamento.
E quando in lontananza spuntava lei, la terra, lui avvisava tutti. A volte gridava forte da perdere la voce, altre quanto serviva affinché nessuno potesse dire dopo di non essere stato informato.
A chiunque avesse bazzicato su quella nave lo potete chiedere, lo giuro, loro ricorderanno prima di tutti i viaggi e di tutte le avventure e di tutti i mari e gli oceani e del caldo o del freddo insopportabili un volto solo, due occhi e delle labbra screpolate. Una voce. Sempre la stessa, ma così diversa che la noia rimaneva esclusa da tutto questo, dal suo mondo e dal mondo di quelli che lo circondavano.
Aveva urlato in ogni buco, in ogni porto, dall'Oceania alle coste delle Americhe; la sua voce aveva raggiunto luoghi così remoti e aveva scaldato il cuore a marinai di ogni genere.
Aveva urlato nella burrasca e dopo la tempesta, sotto la neve nel Mar Glaciale Artico e sotto il caldo opprimente delle coste Africane. Aveva conosciuto le scogliere portoghesi e le rocce delle Indie.

Un volto così credo sia difficile non ricordarlo.
Non so se sia possibile crederlo, ma i giovani che scendevano a turno nei porti ad abbracciare i cari, quando questi li guardavano e chiedevano dei viaggi e della fatica, loro sapevano soltanto dire "Avreste dovuto sentirla! La sua voce."

Gli occhi blu, come quando l'oceano è profondo e fa paura.
Il Sole aveva scritto ogni suo nascere e ogni suo scomparire sul suo volto; lo aveva solcato, come le gocce fanno piano sulla nuda roccia. Le rughe erano così profonde e il sale andava a posarsi sul suo naso e gli dava terribilmente fastidio, gli levigava la pelle come l'acqua fa con i sassi.
E due ciocche di capelli bianchi cadevano stanche sulla fronte vissuta.

Quella mattina comunque, come dicevo prima, era diversa dalle altre per un motivo.
Mancava da casa da una vita. Non è un modo di dire; era da una vita che non la vedeva e l'aveva sognata di giorno e di notte, in ogni direzione e su ogni rotta. 
E ora ci tornava.
Come si torna dalla moglie o dai figli.
Lui non ne aveva di figli e nemmeno la moglie.
Aveva avuto sempre lei, la terra. La sua terra.
L'avrebbe riconosciuta da cento miglia di distanza.


Eccola là.

Silenzio.
Nessun urlo.
Non una parola.
E più si avvicinavano, più l'equipaggio si radunava attorno a lui incredulo di ciò che stava accadendo.

La sua Itaca era là. Con le braccia aperte.
Così tante volte gli era apparsa nel sonno e ora era lì. Per lui. Con lui.

Lentamente si girò verso le anime di delinquenti che lo avevano accompagnato per anni nei lunghi viaggi e la voce gli si fermò in gola e pesava come un macigno " Sono a casa, sono arrivato."
Ogni marinaio si fece muto come mai lo era stato nella vita.
"Devo scendere".
E ve lo dico io, sembrava quasi uno spettacolo per chi assisteva alla scena da terra.
Cinquanta uomini, metà dei quali avanzi di galera e l'altra metà gente che nemmeno della galera era degno, fermi come statue di marmo a guardare un uomo camminare sul pontile.

Si girò. E tutti la poterono vedere la lacrima che gli scese dall'occhio rigandogli la guancia, cavalcando ogni ruga presente. Solcò più la sua pelle quella lacrima così da tempo trattenuta, che il lavoro di anni del Sole.
E disse con un solo respiro "Terra".
E nessuno lo vide più.
Un uomo che neanche per un istante aveva tremato davanti a onde di dieci metri, piangeva nel vedere casa sua. Per anni aveva avuto il timore di tornarci. Ha davvero dell'assurdo.


Ebbene io ero tra loro. Tra i marinai.
E i giorni seguenti non si sentì più nessuno annunciare l'arrivo.
Si videro solo occhi spenti e sguardi cupi.
E nemmeno l'oceano sembrava bello come prima.
Si dormiva male la notte.
Siamo scesi anche noi.
Ho sentito dietro di me, mentre mi incamminavo verso casa, una donna chiedere ad uno dei marinai abbracciandolo che cosa ne fosse stato della sua vita negli ultimi mesi, lui disse solo "Avresti dovuto vedere quella lacrima".

lunedì 14 settembre 2015

Lettera mai imbucata

Vorrei poterti scrivere in altre condizioni e momenti migliori, ma la vita é strana e lo sai tu meglio di me. Non ho idea di cosa te ne farai di queste poche parole che oltre tutto non vanno nemmeno molto d'accordo fra di loro, ma la gente mormora che sia la speranza l'ultima a crepare e io, molto in fondo, ci credo.
La malattia sta mangiando ciò che di me resta in questo mondo, é sotto gli occhi di tutti. Sono sempre stata realista. La malattia c'è, il dolore, la fatica, la sofferenza profonda sembrano quasi volersi alleare con me di questi ultimi tempi.
Vorrei invece che tu rendessi conto di come ci sia data persino, o forse soprattutto, nel dolore la possibilità di un riscatto grande.
Non ho mai guardato la vita come la guardo ultimamente. Mancano pochi giorni. Mi manca poco tempo. Ci si rende conto di quanto tempo si è perso e di quante occasioni sprecate. Ma invece ritengo che tutta la vita dovrebbe essere così. Cercare, e alle volte rubare, quel diritto di vivere e gustarsi il presente, che a volte sembra esserci tolto e a volte siamo noi stessi a privarcene. Non trovi forse anche tu?
Non credo affatto sia una questione di opinioni sai.
Non lo è affatto, ne sono sicura.
Perchè lo sto provando sulla mia pelle. E nonostante l'evidenza che tra pochi giorni questa inizierà ad essere cibo per vermi e altri insetti interessati, persino questo non lo impedisce.
Sai, la parola che maggiormente si discosta dall'idea di 'vita tranquilla', (la cosa più terribile che esista), credo sia l'inquietudine, che ci tiene sempre desti, sempre sull'attenti riguardo al mondo che continua a girare, nonostante la nostra volontà e il nostro desiderio spesso vogliano fermarlo.
Se ci rifletti in fondo ti renderai conto dell' infinita nostra sfrontatezza e irriconoscenza nel trattare questa vita, che nonostante ogni dolore, ci è stata data.
Un tempo per ogni cosa, anche questo è vero.
Ma giuro di essere serena ora. E tra la serenità e l'essere tranquilli dovrai sapere persino tu che vi è un abisso. La prima ha alla base la certezza della vita, il secondo é uno stato d'animo più che passeggero, cosa terribile e di poco conto.
Ti auguro di non essere mai tranquillo. Questo sí.
E quando li vedi per strada che si aggirano già soddisfatti, le persone tranquille si intende, già giovani tocca a te svegliarli dal loro sonno; usa i pugni se serve, ti autorizzo io.
Ho visto vivi essere morti e uomini dati per dispersi riacciuffare la vita con impeto.
Non il tempo, ma la scelta di come utilizzarlo.
Che tu sia sempre inquieto. Questo ancora meglio.
E tutto ciò credo dipenda solamente dall'apertura del cuore.
In questo non ci sono angolazioni.
Niente prospettiva. Quando il cuore è aperto.
Non c'è nulla da fare, lui sa, devi essergli fedele. Poche bugie.
Sii fedele con lui e lui ricambierà. È piuttosto generoso.

Sempre inquieto e con il cuore spalancato.
Il testamento mica lo sapevo scrivere.
Spero di vederti presto, per spettinarti ancora i capelli. Come si faceva una volta.
Questa non la imbuco, la devi trovare tu.
Chi cerca trova si diceva una volta.

autore: Sebastiano Colaluce

venerdì 11 settembre 2015

Gli occhi che vorrei per me

Occhi di falce.
Forse perché, ogni qual volta il suo sguardo si incontrava con quello di lei, gli tagliava le gambe di netto e lo faceva pentire di tutto il male che avevo commesso.
Lo faceva sentire sporco; la doccia l'aveva fatta poche ore prima, ma si sentiva incredibilmente sporco dentro, poco più in profondità nella cassa toracica. Era un dolore pulsante.

Occhi di fronde.
Di quel verde in cui ci si culla. Gli ricordavano i salici. Sempre lì immobili ad accogliere la gente, i rami come braccia che si stringono attorno al corpo.
Verde speranza. No, niente battute. Speranza di ricominciare a vivere. Perché spesso si distraeva con la vita. La prendeva per la coda in modo arrogante, come se questa fosse un cane randagio, la guardava in faccia ed esclamava "Tanto son più furbo io!". Ogni volta ci cascava. E avrebbe avuto bisogno ogni volta dei suoi occhi. Gli occhi di Falce intendo. A far pulizia dentro di lui. Ed era ancora convinto che vi fossero meandri del suo cuore ancora buii e profondi che non aveva il coraggio di esporre, come si fa al mercatino.
Ma d'altra parte era anche convinto che gli sarebbero bastati ancora due o al massimo tre sguardi incrociati (nel senso che suoi occhi sarebbero stati collegati agli occhi di lei come da un filo) e lui sarebbe crollato.
Come fanno i sassi nell'acqua. Affondato.
Maledetto peso dell'arroganza. Maledetto peso.
Sempre più giù.
E pensa che so nuotare bene.
Solita arroganza.
Occhi di casa. Come quando la via sembra più lunga e i passi stanchi. E si entra dalla porta dopo tanta fatica e qualcuno è lì ad aspettarti. Le braccia sono immobili, ma gli occhi dicono tutto.

Occhi reali. Occhi che danno pace, ma che allo stesso tempo sono vampate di tempesta.
Occhi da cui si vuole tornare, come quando si è lontani da qualcosa di vitale.

Per il perdono, la redenzione, l'amore, la pace o la guerra questo non lo so. Ma se ne sente la mancanza.
Bisogna ritornare. Ad essere guardati

autore: Sebastiano Colaluce

giovedì 10 settembre 2015

"Brindiamo anche agli amori, quelli che si perdono tra la folla e che la ressa calpesta.."


Il Bibliotecario

Il treno, l'ambulanza e le campane della Chiesa. Non si poteva dire certo che fosse musica per le sue orecchie.
Come ogni giorno, posizionava un sassolino dentro la scarpa. Solitamente quella destra. Gli piaceva avere qualcosa che lo tenesse sempre desto e quel fastidio continuo al piede quando lanciava la gamba avanti e poggiava la suola sull'asfalto contribuiva molto al risveglio giornaliero. In realtà non è che provasse piacere a farsi del male, nessuna forma di masochismo o cose del genere, assolutamente, ma non sopportava i sognatori. Non che lui non lo fosse sia chiaro, ma non amava i sognatori che non avevano i piedi per terra. Vi sembrerà un controsenso. Peró i veri sognatori hanno un piede sempre appoggiato e un altro alzato come per saltare. E lui si aiutava con il sassolino. Ognuno ha i suoi metodi.
Chi la puntina sotto la sedia.
Altri le testate contro il muro.
Altri ancora la doccia con l'acqua fredda.
Lui il sassolino nella scarpa. Non c'era nulla di male.
E infatti lui non era un comune sognatore, di quelli che si incontrano di continuo negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie. Troppo semplice e anche abbastanza scontato direte voi. Troverete tutto il mio appoggio di fatti.
Dico sognatore non nella norma perché erano 68 anni e 3 giorni che lui non si muoveva da quella cittadina a cui un barbone non avrebbe dato un dollaro. Erano anche 68 anni anni in cui ogni singolo giorno lui aveva sognato; con un piede qua, appoggiato per terra dove sto calpestando io ora, e l'altro un poco rialzato. E con un sassolino dentro la scarpa destra.
Ogni giorno si presentava alla stessa ora, puntuale, davanti alla porta del grande edificio. Era l'esempio vivente di come l'ordinario si mescolasse con lo straordinario senza lasciarne traccia : ogni giorno era talmente diverso dal precedente o dal successivo che non si annoiava mai. Per questo avrebbe voluto iniziare il lavoro qualche minuto prima, ma l'educazione gli imponeva di presentarsi all'ora indicata.
Saliva la rampa di scale. Tredici gradini. L'ultimo gli sembrava sempre più corto degli altri. Si riprometteva che lo avrebbe misurato con il metro, ma se ne scordava puntualmente ogni singolo giorno.
Si posizionava dietro il bancone. Seduto ovviamente. E in realtà non c'è molto altro da raccontare perchè prestava libri. Era un bibliotecario. Il vero problema è che non ne aveva mai prestato uno. Era da quando aveva 21 anni, da quando aveva iniziato quel meraviglioso lavoro, che non aveva mai dato via un libro. Aveva sempre fatto sì che chiunque entrasse in quella biblioteca ne uscisse a mani vuote. Non che non sapesse fare bene il suo lavoro, sia chiaro. È che lui li amava i libri.
Come ci si innamora delle ragazze ecco, lui si era innamorato delle pagine. E le conosceva tutte, dalla prima all'ultima. Senza alcuna preferenza, erano tutte belle.
E mettetevi nei suoi panni per un solo istante : quando qualcuno varcava la soglia lui lo vedeva proprio come un affronto, come se gli stessero per rubare ciò che lui amava, ciò che lui con il tempo aveva imparato ad amare più di chiunque altro.
E si presentavano lì al bancone, timidi e impacciati sussurravano il nome del libro che lui aveva già aveva riconosciuto da quando lo avevano osato prendere in mano. E si inventava ogni giorno una storia diversa per convincerli che quello era un libro di poco conto.
"Guardi la copertina come è rovinata insomma!" diceva.
E se ne usciva anche con frasi del tipo " Questo dovremmo toglierlo dagli scaffali, anzi ora lo faccio".
E in un modo o nell'altro nessuno lo aveva mai battuto.
Ogni giorno una storia diversa si inventava, d'altra parte avendo letto tutti quei libri la fantasia certo non gli veniva a mancare. Li faceva tutti fessi.
Poi era entrato lui. Sembrava già fesso solo dalla faccia, se lo avesse anche fatto fesso lo avrebbe reso uno scherzo della natura.
Insomma era un ragazzo. E andò dritto verso un libro, lo prese in maniera decisa come se avesse già studiato quel momento tempo addietro.
E lo aprì. Sorrise. Uno di quelli buoni.
Di quei sorrisi che scappano senza volerlo e quasi non ci si riconosce.
Portó il libro al bancone e il bibliotecario non seppe dire nulla. Nessuna storia, nessuna copertina rovinata, nessuno sbaglio o cose simili. Lo lasció andare.
E in un attimo si rese conto che non aveva mai pensato che qualcun altro potesse amare ciò che amava lui allo stesso suo modo, con la stessa intensità. Non ci aveva mai riflettuto.
Ed era più felice ora che ci pensava. Non era il senso di condivisione buonista, che spesso ci rende tristi; no, non era affatto quello. Ma forse il fatto che si era reso conto di appartenere a qualcosa.
E ora, solo ora, si rese conto di cosa parlasse Fitzgerlad quando diceva: "Questa è la parte più bella della letteratura: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni".
Aveva vissuto una vita solo.
Aveva amato, ma nel modo sbagliato.
E mai come quel giorno aveva amato i libri così tanto.
Ora apparteneva.

autore: Sebastiano Colaluce

"Perchè quest'Alba è una benedizione.."




Camminava di buona lena ed era presto. Era un passo veloce, come se avesse un sacco di cose da sbrigare.
Pensava all'arte e a come non fosse mai morta. Sì, aveva sofferto persino lei nei secoli e aveva visto periodi buii, ma non era mai cessata di esistere.

A come fosse ciò che più si avvicina al divino. Lo sfiorava senza mai toccarlo, per questo l'uomo continuava a fare arte. Era il motivo per cui ne aveva bisogno. Da sempre. Da sempre era stato così. E pensava anche che sarebbe stato così anche in futuro.
Il mattino era alle porte e lei gli andava incontro.
Qualche capello si spostava verso il viso, un venticello leggero era l'autore di quel quadro.
Non c'era poi molta differenza tra lei e il mattino.
Come ogni giorno il sole aveva l'abitudine di sorgere senza che quasi nessuno lo aspettasse, anche lei ogni giorno era lì. Ed era tutto gratuito, nessuna ricompensa. Era come i regali. Erano come i regali. Sì, come quei regali che nessuno aspetta e che sono colpevoli di grandi sorrisi.
Lui guardava lei e lei si alzava per accoglierlo.
Pochi minuti all'alba.
Aspettava il momento giusto.
Per scattare la foto si intende. Naturale, questo faceva. Prendeva la realtà, metteva a fuoco e abbracciava le cose del mondo. Le stringeva forte e le catturava per sempre.
Ne aveva catturate di cose e di persone negli anni.

Il Sole era più bello che mai. Baciava il suo viso tondo tondo come a ringraziarla dell'attesa.
Lo avrebbe fatto come faceva sempre.
Peró questa mattina era diversa dalle altre, aveva qualcosa che non sapeva spiegarsi. Non avrebbe saputo dire cosa, ma qualcosa era cambiato.
Era diverso da ieri e questa cosa non la lasciava in pace.
Alzó lo sguardo, non di scatto si intende. La fronte per prima e poi il naso fino a scendere alle labbra.
Era illuminata. Illuminata significa che nulla era stato dimenticato. E il cuore batteva più forte di ieri e aumentava il passo.

Lasció cadere la macchina che penzolava al collo.
Niente foto oggi. Non sapeva cosa sarebbe successo domani e nemmeno la mattina seguente, ma questa mattina era un dono.
Come lo era lei e mica se ne rendeva conto.
E i doni non sono fatti per essere catturati, si ricevono e basta.

Erano una cosa sola. Lei e il mattino, per chi non avesse capito. Si mescolavano insieme.

autore: Sebastiano Colaluce

Traballo. Racconto breve, ma neanche troppo.

Sai stavo viaggiando e pensavo a quel che ci stavamo dicendo l'ultima volta che ci siamo visti. Non ricordo ogni parola di preciso, sai meglio di me come sono fatto.
 Insomma ci stavo pensando, mi capita a volte di ripassare sulle cicatrici e di estrarre i ricordi meno piacevoli, succede non faccio mica apposta. Lo sai. Si e poi pensavo a come fanno i marciapiedi, come li fanno larghi intendo. Magari nessuno capirà, però tu sai cosa intendo.
È inutile che li facciano così larghi quei dannati marciapiedi. Tu ci camminavi sempre sul lato più a sinistra, quasi sul bordo della strada. Ricordi? E mettevi un piede dietro l'altro. Con il tallone di uno toccavi la punta dell' altro con una precisione chirurgica. Sorridevi sempre e mi chiedevi di provare, mi dicevi che mi sarei divertito pure io. Ti davo sempre retta, sai come sono.
E mi dicevo che se tutti camminassero come ci camminavi tu sui marciapiedi si potrebbero anche fare più stretti. Si risparmierebbe un sacco di asfalto e di lavoro. Passerebbero molte più automobili. E ci sarebbero un sacco di persone che camminerebbero con il sorriso in faccia. Come il tuo.

Sai che pensavo anche a quel che mi dicevi sulle mele quando facevamo la spesa al mercato. Che ne dovrebbero vendere di più. Parlo di quelle rosse sia chiaro. Quelle belle rosse che ti dispiace quasi mangiare.
A te piacevano moltissimo. Sì me lo ricordo.
Avevi le bretelle, anche se le altre ragazze non le portavano, e con un morso dietro l'altro la mangiavi, la tua mela rossa.
E i capelli. Che fastidio che davano i capelli. Svolazzavano in giro, come se avessero vita propria.
"Dovrebbero smettere di piantare le arance e vendere più mele!", avevi detto un giorno. Mi ricordo che era d'estate quando me lo dicesti, non chiedermi il giorno perché un giorno accanto a te valeva l'altro : tutti incredibilmente avventurosi, difficile ricordarsi i particolari.
Una vita avventurosa. Questo sì.
Più mele. Sì.
E i marciapiedi più stretti. Sì, penso di sì.
Avevi sempre ragione.

E mi avevi detto che avresti voluto in casa una sedia a dondolo, di fianco al camino.
L'ho comprata sai e l'ho pure messa di fianco al camino.
La uso spesso.



Sai mi hanno detto che ti hanno trovata. Mi hanno telefonato.
Sì ti hanno trovata.
E quasi mi è caduta la cornetta.
Hanno visto un corpo per strada. Ti han trovato al bordo del marciapiede. E un torsolo di mela a pochi metri. Sempre vestita con le stesse bretelle che ti piacevano molto, anche a me piacevano a dire il vero.

Sì ti hanno trovata. Eri distesa e non ti sei più rialzata.
Non posso dire che non mi manchi. Peró ho piantato un melo in giardino. Le fa belle rosse, le mele.
E ho smesso di comprarle quelle maledette arance.
E cammino come camminavi tu.

Sempre traballando.

autore: Sebastiano Colaluce