sabato 26 dicembre 2015

A Marsiglia la speranza non muore

"Salpa la Silver!"
"Salpa la Silver!!"
Se vi foste aggirati per Marsiglia quel giorno ora capireste perché la notizia agitava così tanto la città.
Bambini e anziani correvano insieme con il sorriso sulla faccia verso la Silver che levava l'ancora e partiva per sognare in porti migliori e mari sconosciuti.
La Silver era una nave, questo sì.
Ma per gli abitanti di Marsiglia non era solo una nave. Per alcuni non lo era affatto.
Era stata attraccata in porto così a lungo che ogni persona di quella dolce città ne conosceva ogni particolare e da tempo era diventata una delle attrazioni che portavano i turisti a passeggiare lungo il porto.
"Quella, signori miei, è la Silver! E' in questo porto da duecento anni! L'ha portata qui il nonno di mio nonno!". Questa era una delle tante frasi che i turisti potevano sentirsi dire da un pescatore francese di Marsiglia; ogni volta che si parlava della Silver gli anni del suo soggiorno nel porto si raddoppiavano e per alcuni quella nave si trovava in quelle acque prima che Colombo sbattesse la testa contro l'America, per altri la Silver in porto c'era arrivata da sola, senza remi o vele; per alcuni la Silver era l'anima stessa di quella città e per i vecchi marsigliesi più fantasiosi che finivano gli argomenti di chiacchiera la Silver diventava l'anima del mondo o lo spirito del tempo.
Ve lo dico io: la Silver era una nave assolutamente normale. Erano quattro lamine di metallo, un'ancora arrugginita e tante viti vecchie. Ma sapete come lavora la fantasia delle persone.
Se gli si dice che al timone c'è stato Long John Silver, lo stesso che era stato su quell'Isola, e lo si continua a ripetere per anni alla fine la gente finisce per prenderlo come un dogma. E la nave la chiama Silver.
Insomma quella nave era stata riempita così a lungo di sogni e storie che mi domando come diavolo facesse a galleggiare ancora.
Era normale vedere le donne passare accanto a quell'ammasso di ferraglia, persino nei giorni di pioggia, lasciar cadere l'ombrello e mandare un bacio alla Silver.
Quella barca era un'idea, un sogno : carica di tutte le speranze e i sorrisi degli abitanti di Marsiglia.
Io la storia ve la racconto così, anche se io ci ho sempre creduto poco.
Lavoravo in un locale niente male proprio di fronte al porto e non mi potevo assolutamente lamentare: il lavoro non mancava con questa storia della Silver che portava un mucchio di turisti e quella maledetta nave era l'argomento di ogni conversazione. Io non ne potevo più, ne avevo sentite di tutte su quel catorcio. Sembravo essere l'unico ad accorgersi che la Silver era una nave assolutamente banale e risultavo essere l'unico pazzo in una città di pazzi.
Però la devo dire tutta: Marsiglia l'ho amata più di mia moglie, forse è per questo che non ho mai avuto il coraggio di andarmene.
Perché non ti prende mai in giro, se tu stai cercando un po' d'amore non ti porterà mai in un bordello, ma, in un modo o nell'altro, in qualche locale farà in modo che si accenda la buona musica ed ecco fatto.
Ovunque chiediate a Marsiglia "Scusi sa dove posso trovare del sesso facile?"
La risposta sarà corale "Giù al porto, nel locale di fianco alla Silver, hanno i vinili di Ella Fitzgerald, cerca lì".
Lo sapevano anche i bambini che quando Ella cantava non era solo musica; quando lei accarezzava il microfono e iniziava a cantare faceva l'amore. Raffinata e sensuale.
"Chieda un vinile di Ella, si sentirà meglio!".
Se uno non è di Marsiglia si sente preso in giro.
A Marsiglia la gente è estremamente sincera e altrettanto credulona. Infatti la gente, con questa storia della Silver, sembrava si fosse quasi dimenticata come si facesse l'amore a Marsiglia e come si raccontassero le storie. Per uno come me la situazione era diventata insostenibile; se sei uno con un mucchio di fantasia va bene, ma se non ci credi alle storie, non ci crederai mai. Io non ci credevo.


"Salpa la Silver!"
"Avete sentito? Salpa la Silver!"
In un attimo mi ritrovai con il locale vuoto.
Avevo preparato due birre e me le dovetti scolare io.
Pensai che finalmente quel rottame avrebbe lasciato la città e che si sarebbe tornati finalmente a parlare dell'amore fatto per bene, del buon vino che noi francesi facciamo meglio di tutti (come ogni cosa d'altra parte) e della musica che piace a noi.
C'era tutta la città intorno alla Silver e le persone non sapevano come comportarsi. Non so se avete presente l'emozione di quando si aspetta una ragazza per il primo appuntamento: ci si continua a toccare i capelli, ci si guarda in giro, si dà un'occhiata all'ora e sembra tutto sempre in ritardo. Ecco.
Sembrava che tutta la città, tutta Marsiglia, fosse al suo primo appuntamento con la Silver.
Erano tutti felici. Tutti estremamente impazienti.
Ognuno di loro aveva scritto un messaggio e lo aveva messo a bordo, nella speranza che arrivasse a qualcuno.
Era tutto pronto insomma.
Il sindaco aveva stappato il vino più buono.
Aveva dato il suo consenso alla partenza.
La banda della città aveva suonato.
Si erano fatte sentire persino le campane delle chiese.
Le preghiere erano state dette.
I baci erano stati mandati e gli ombrelli erano caduti, nonostante il sole quel giorno splendesse alto.
Urla di gioia.
Era partita la Silver, la barca di quel capitano immaginario che per mare ne aveva combinate di ogni.
Era stata levata l'ancora e si era mossa dopo tanto tempo.

Io l'avevo detto che non ci avevo mai creduto, lo avevo sempre sostenuto.
Infatti dopo una cinquantina di metri quella razza di catorcio cadde a picco come fanno le pere cotte! Splaff!
Lo avevo sempre sostenuto io!
Ma dovevate esserci per capire.
Migliaia di teste speranzose si chinarono contemporaneamente quasi ad accompagnare quel sogno che veniva inghiottito a pochi metri dal porto.
Nessuno aprì la bocca o non ci fu il tempo dei commenti balordi.
Silenzio.
Un sogno, una speranza, Dio solo sa di cosa, prima c'era e un attimo dopo non c'era più.
Era stata talmente rapida la cosa che nessuno se ne capacitava.

La gente tornò a casa e per qualche giorno la città si svuotò.
Ricordo che dovetti chiudere il locale per qualche tempo perché vi era più probabilità di incontrare Long John Silver in persona che qualcuno che venisse a chiedermi di ordinare.

Dopo qualche settimana la gente riprese a uscire. Si ricominciava a vivere.
La scomparsa della Silver era stato per Marsiglia un po' come quando quel famoso velo del Tempio si era squarciato.
Ci voleva del tempo perché le persone prendessero coscienza di cosa fosse successo.
Io avevo ricominciato a lavorare e non mi potevo lamentare, perché noi di Marsiglia siamo sempre i soliti.
I turisti erano aumentati con questa storia della pera cotta.
Le fantasie che erano state inventate erano proprio fantasie: "Dovevate vederla! Dovevate! Come si fa a raccontarlo così a parole?" e tutti in coro rispondevano "E' impossibile! Dovevate esserci!"
"La nave, quella che il nonno di mio nonno aveva portato qui, quella di Silver, la nostra Silver, è salpata il mese scorso e si è trasformata in un maledettissimo sottomarino! Chissà dove sarà ora!"
"Già, chissà dove diavolo si sarà cacciata!".
Io ascoltavo queste sciocchezze e ridevo. Perché la nave era affondata, ma la gente alla fine continua a credere. La gente deve credere a qualcosa.

"E' arrivata Ella!!"
"E' arrivata Ella Fitzgerald! E' in città, suona questa sera!"
Mi sono ritrovato di nuovo il locale vuoto, io e le due birre pronte.
Ella è sempre lei però, lei non canta sul palco, lei distribuisce amore e insonnia.
"Amico non vieni!?" mi ha detto qualcuno uscendo di corsa dal locale.
"No ho un paio di cose da sbrigare e poi queste birre qualcuno le dovrà pur bere!" ho risposto.

Sono rimasto solo.
Ho bevuto le birre e sono uscito.
Sono andato a passeggiare lungo il porto.
Ho controllato che ci fosse. La Silver intendo.
Perché non si sa mai, magari domani ritorna in porto.

lunedì 14 dicembre 2015

Persino questa notte mi sono scordato di dormire

Io non riesco ad essere egoista quando si parla di sonno. 
Prima di dormire devo pensare ad un sacco di cose che mi frullano per la testa. 
Ci ho provato a chiudere gli occhi e basta; a fare finta di niente. 
Ma non ce la faccio, lo giuro. 
Ogni sera mi sdraio ed è così naturale chiedersi cosa diavolo starà facendo l'oceano dall'altra parte del mondo. 
Quanto sonno avrà il marinaio intrappolato nella bocca della tempesta? Non riesce a uscirne e si sforza, ma le vele sono zuppe e il mare è più forte di mille eserciti. 
Cosa avrà nella testa quel pirata che da quando è nato si è convinto di saper solo rubare e a lui nemmeno piace l'oro, ma si vergogna a dirlo agli altri mascalzoni e sotto il cuscino colleziona bottoni?
E a quell'uomo che ha sposato il silenzio e le montagne? Nessuno ci pensa mai? A quale freddo deve patire ogni notte per amore delle cime. 

Spesso la mente ritorna.
Funziona così. È come un circolo vizioso. 
Non posso fare a meno di pensare a quella prostituta sulle strade di Gerusalemme che ogni sera chiamava 'amore' ciò che le spezzava quotidianamente il cuore; per quattro spiccioli e un poco di notorietà . 
Non l'aveva persa la dignità, la stava solo cercando per strada, ma ci vuole tempo. Come in tutte le cose. 
Si sarà già addormentato quell'uomo che in prigione era più libero di molti altri che pensano invece di esserlo da sempre? Potessi dirgli due parole o anche chiedergli come si fa. 
Come si fa a guardare oltre le mura degli occhi e del cuore?
Sarà sicuramente stanca quella donna che in periferia di Lisbona usava il canto come rimedio per il pagamento dell'affitto di casa. Non avrà sonno? Anche a cantare ci si stanca. 
E quel barbone che ha chiesto per anni un po' di carità disteso per terra e ora cerca pace nelle chiese vuote di Parigi? 
La città che ha dimenticato i suoi figli. Persino quell'uomo chiede aiuto ad un Dio a cui gli abitanti di Parigi hanno smesso di credere da tempo.  

Per quella strada di Londra, dove ho perso la memoria, chi starà camminando? 
Almeno qualcuno, da qualche parte, starà leggendo il mio libro preferito! Lo spero!

Ho in mente una data e non so perché: 1934. 
Quanta gente dormiva a quest'ora nel 1934? 
Credo fossero tutti svegli. 

I pesci a quest'ora hanno paura? 
E soprattutto: i pesci hanno sempre voglia di nuotare? 

Un giorno ho assaggiato un buon vino e ho pensato al lavoro dell'uomo e al gusto per le cose buone.
È tutta un'altra cosa se le vedi come devono essere viste le cose. 
Quel vino non era solo vino, ma sudore, fatica, bestemmie, imprecazioni, ringraziamenti, preghiere, speranze, amarezze e uva. 
Tutto questo in un sorso. 
Che signor vino! 
Ora a ripensarci ne vorrei un bicchiere. 
Chissà se riposa anche il vino.. 

Ci pensate mai che potrebbe esserci un posto che non ha mai conosciuto rumore? Il silenzio ne ha fatto la sua dimora e riposa con la coperta, il camino e tutto il resto assiste con la bocca cucita. 

Pensate a quante sigarette.
A quanti veleni e a quanti terremoti.

Un treno parte e una ragazza perde una lacrima.
Vola via anche il desiderio sulle rotaie con il vento e tutto si perde in un vortice di rimpianti.

La mongolfiera del pirata, che ha deciso finalmente di cambiare vita, è arrivata in città.
Porta una collezione di bottoni con sé, il bottino più grande di sempre, un sacchetto di ricordi sbiaditi su cui ha appoggiato la testa centinaia di volte.
 

E quell'alba sulle coste dell'Africa. 
Il sole avrà finito di sorgere? O starà ancora riposando? 
Il Sole non va mai in ferie ? 

No, appunto.
Lancia ora i suoi raggi lontano ed entrano di soppiatto nella mia camera! 

Diamine anche questa notte mi sono dimenticato di dormire. 
Sarà per un'altra volta.

domenica 29 novembre 2015

Sono entrato in un locale. Suonavano jazz e non sono più uscito


 


Ho girato parecchie città e ho vagabondato per strade strette e grandi, affollate e senza un'anima.
Ho cercato un po' ovunque e sbirciato qua e là silenziosamente.
Non mi sono fatto notare da nessuno eppure ero sotto gli occhi di tutti.
Ho chiesto informazioni a volte. Anche se poi, maledetto, finisco sempre per fare di testa mia.
Pensate che una volta mi trovavo nel centro storico di quella meravigliosa città e stavo cercando un quadro. Mi avevano detto che si trovava esattamente in quell'edificio, ma non mi fidavo; non mi fido mai. Ho girato tutti i quartieri della zona per controllare che non si fossero sbagliati. Ho camminato tanto per poi accorgermi che l'unico che sbagliava ero proprio io. Sì, sono così. Però quando le cose sono vere io poi ci credo per sempre e non mi muovo più. Come quella sera.
Andiamo con ordine però.
Ero appena sceso da uno di quei treni che sai con certezza che parta, ma non sai affatto se si fermerà, perché non lo guida un uomo, ma gli animi dei passeggeri: chi muore dalla voglia di tornare a casa e riabbracciare qualche corpo caldo, chi sta fuggendo da qualcosa e, persino chi, come me, non sa nemmeno perché diavolo si trova su un treno.
Ero sceso e stavo già pensando che avrei dovuto trovare un posto in cui alloggiare la notte.
Per i vagabondi funziona così: quando il sole scende si inizia a pensare a dove si dovrà sognare quando tutti dormono, possibilmente al caldo.
Mentre muovevo il mio corpo stanco, tralasciando la postura corretta che si dovrebbe mantenere in presenza di estranei e di occhi vigili, mi guardavo intorno del tutto assente.
E poi apparve dal nulla un locale e decisi che avrei fatto sosta lì per schiarirmi le idee.
Li ricordo ancora quei gradini, quelli che conducevano verso l'ingresso e andavano verso il basso.
Ora io non so cosa pensiate voi della musica però io di una cosa sono sicuro: deve essere sincera. Come tutte le cose; quando non sono vere ci si mette un attimo a rendersene conto, che poi si ignori quanto dice il cuore, bè, questo è un altro paio di maniche.
E credete a me, quella notte ascoltai Dio che suonava il sax e mi diceva che per quella notte, per quelle poche ore e per molte altre ancora non avrei più dormito.
Perché il jazz è così, non sono previste delle norme, delle regole, non si deve essere alti, magri, belli, simpatici o che ne so io. Anzi, spesso chi sale sul palco e pretende di insegnare del jazz è brutto e obeso, ha il naso storto, è antipatico, beve un bicchiere di troppo e ha tanti di quei difetti che è inutile persino contarli. Puoi essere bianco, nero, giallo o anche viola se ti va di pitturarti la faccia, ma conta cosa dirai sul palco. Una volta ho visto un nero che non superava i sei piedi di altezza suonarle di santa ragione ad un mezzo gigante che si nascondeva perché appariva irriconoscibile a sé stesso prima che agli altri. Suonarle si intende le note ovviamente.
Ognuno nel jazz prende tutto quello che ha dentro e lo tira fuori, lo espone. Come quando si racconta una storia. E poi è naturale quanto pisciare. E' naturale quanto mangiare perché non puoi starne senza. Vi dirò di più: il jazz è ancora più naturale del mangiare perché un pezzo di pane ti basta per qualche ora, invece, quando le note iniziano a rincorrersi, non ti bastano più.
Ci sei tu e il tuo strumento, che nessuno capirà mai quanto possa valere perché sei proprio tu che hai raccontato tutte quelle storie. Le hai raccontate prima di tutto al sax o al piano, e poi loro ti hanno aiutato a buttarle fuori.

E' quasi impossibile dirvi cosa accadde quella sera perché per delle ore, che a me parvero evidentemente minuti, io ero stato catapultato in un altro mondo.
Mi risvegliai solo quando il proprietario del locale mi toccò dentro e mi disse con voce stanca: "Mi scusi signore, noi dovremmo chiudere".
"La musica" risposi io.
L'avete sentita quella musica? Non era umana diamine!
Il rischio c'è persino nelle cose non umane; di non riconoscerle intendo. Le cose belle, se non si afferma con certezza il motivo per cui sono belle, perdono anche esse la loro anima. E si finisce per darle per scontate.
Avevo la sigaretta in bocca e non l'avevo nemmeno fumata; l'avevo tenuta in bocca tutta la notte.
Uscendo dal locale l'ho accesa senza neanche rendermene conto.
Ero stato in un mondo che non sapevo nemmeno potesse esistere, come quando finisci un buon libro e vorresti dire all'autore che ne vorresti ancora un po', ancora un assaggio, ancora qualche stramaledetta pagina, anche banale; perché sei arrivato dove non credevi saresti mai potuto arrivare e ora non ti basta più nemmeno quel traguardo che poco prima era impensabile.

Ho ripreso il treno.
Nessun animo desideroso. Solo un treno, un conducente stanco del suo lavoro e mille e più volti simili a maschere.
Sono entrato in locali di svariato genere, tutti diversi tra loro.
E di nuovo ho viaggiato mordendomi la coda, come i cani, di città in città.
Perché non sono tanto diverso da loro, sono uno schifoso randagio.
Ho cercato qualcosa nelle maschere.
Ho implorato per un po' di desiderio, ma nemmeno le puttane sembrano più averlo. Almeno una volta facevano il loro mestiere con passione.
Nemmeno la passione trovo più.
Giro le piazze e mi perdo tra le vie; sbaglio strada. Allora chiedo indicazioni, tanto faccio ugualmente di testa mia.
Sbaglio di nuovo.
"Cerco la musica! Qualche indicazione precisa?"
No, nessuno ne sa nulla.
Mi fido allora solo di me stesso e faccio bene. Sapete perché?
Perché ora ho capito. Perché quando nessuno mi vede io ci ritorno. Ogni sera lascio passare tutti i treni che accolgono solo le maschere e salto su, sul treno senza conducente. Entro nel mio locale, tiro fuori dal pacchetto una sigaretta e non la fumo. La metto in bocca, ma non la fumo; ho di meglio da fare. 
Ascolto suonare Dio per qualche ora e poi aspetto che qualcuno mi dica che è ora di andare.
Perché anche Dio, ogni tanto, ha bisogno di riposo.
Perché anche il locale di Dio ad una certa ora chiude, ma riapre il giorno seguente.
Stessa ora.
Medesimo posto.
Identico treno.
Sempre con la mia musica, quel jazz con cui non riesco ad addormentarmi.

mercoledì 25 novembre 2015

Raccolta di parole nè calde nè fredde, ossia autunnali.

Della notte conosci i sussurri 
Distingui il mio odore 
Scacci la nebbia che sulla terra e sul cielo allunga le braccia 
Fai tuo il mistero e il dolore 
dell'uomo ferito che accogli in seno.
Muori e risorgi ogni notte,
Perché la notte chiede di più. 
Perché è l'unica che ci chiede la morte e la vita 
Prende quel pezzo di cuore 
Dove tu hai nascosto la mia parte di Luna 

Dove ho nascosto l'istante in cui ho visto i tuoi occhi 

Dormi che io sogno ancora per qualche ora 

mercoledì 28 ottobre 2015

Tu non morirai

Avete mai detto a qualcuno "Tu non morirai" ? 
Tu, che ora sei qui. Tu, ovunque andrai, non morirai. 
Sapete che è l'impresa più grande che uomo possa compiere? Vale più di qualsiasi bacio. Di qualsiasi abbraccio. Più della liberazione di un popolo dalla schiavitù. 
Più di qualsiasi libertà, di qualsiasi discorso.
Sono certamente le parole più oneste che si possano dire. Le più sincere. Le più naturali. Perché non sono del mondo. Accidenti non sono affatto di questo mondo! Sono dell'anima. Sono certamente dell'anima. 
Queste parole.
Lottano contro ogni sforzo del tempo e della morte che a tutto e a tutti si vogliono aggrappare. E trascinare ogni cosa con loro. 
Precedono e superano il tempo  stesso perché esse non sono del tempo e nemmeno della storia. 
E quel dolore così grande, quella ferita tanto aperta, tanto lancinante, così viva, rimarrà dolore e non disperazione. 
Diamine non è affatto una consolazione! 
È la certezza di un abbraccio che mancava da tempo che ritrova le braccia che lo accolgono di nuovo.
Ora non nego a me stesso che manchi un sorriso a questo mondo, ma devo sopportare. Se no si affoga. 
Ma le parole a dirla tutta sono proprio inutili. Tranne quelle giuste. 
Perciò io te lo dico tra le lacrime e questo cuscino così inutile, te lo dico con un filo di voce e con il dolore che sale dalla gola e la speranza che mi accarezza le guance: "Tu, ora, ovunque andrai, che tu stia lontano o vicino, che tu sorrida o meno, che non ti accorga o invece ci faccia caso, tu non morirai.
 Non è nemmeno una promessa.
 Tu, amico mio, oggi, domani e per questo mondo, non morirai. 
La pioggia. 
Milioni di lacrime del cielo. 
Tu non morirai. 
Sorridi ancora una volta 
Tu non morirai.

mercoledì 7 ottobre 2015

Ti racconto di me. Tra la folla e ai margini della strada

Se dovessi raccontarti qualcosa di me, della mia vita, di ciò che sono stato e che ora sono, credo partirei da quel giorno. Ti parlerei di quel posto e di quella gente.
Di quell'ora che nella mia testa e nel mio cuore corse veloce come un minuto.
Partirei nel raccontare da quegli odori che inondavano le vie e delle centinaia di spezie che gareggiavano fra loro in un orchestra di varietà e di soddisfazioni per ogni naso attento in circolazione.
Una gara. La vita mi appariva così.
Una gara a chi la sapesse corteggiare meglio. E io, sia chiaro, di vite ne avevo corteggiate molte e di molto strambe e il primato lo volevo per me. Il premio: la felicità. O almeno così credevo.
Le strade ricolme di carne, viva e morta. Esposta e nascosta. Ali,  petti e poi occhi, mani e piedi. Sembrava che il mercato avesse attratto ogni anima di quella città con il richiamo del banchetto, della festa, e la gente si accalcava con grandi aspettative. Cappelli di paglia si muovevano come un fiume.
Io ero tra la folla. E mi muovevo con lei.
La possibilità di fermarsi era molto scarsa dal momento che persino gli angoli di ogni vicolo che con l'occhio potevo raggiungere erano stati riempiti da cianfrusaglie o occupati da qualche mendicante che vedeva come manna dal cielo, o dono di qualche dio così a lungo odiato, quello sciamare di gente.
Ma non ero intenzionato a fermarmi. Figuriamoci.
Sentivo suoni di cui non sapevo il significato, grida e parole sussurrate che nella mia mente potevano avere lo stesso significato e la stessa importanza, ma mi sentivo più a casa di quanto mai lo fossi stato.
I piedi inciampavano nei gradini delle vie strette e alcune signore mi guardavano come se non avessero mai incontrato prima un uomo in vita loro.
La mia fronte grondava, ma ci feci caso solo dopo, quando una goccia, avendo percorso il suo lungo tragitto a cavallo dell'osso del naso, era caduta tra la barba.
Si proseguiva a passi lenti e molo ravvicinati; la ressa decideva la direzione: come il vento per le foglie, soffi e sbuffi improvvisi a spostare centinaia di cose e persone. Era così difficile non farne parte. Così naturale.
Non vorrei dimenticare di raccontarti di come giocava il cielo e del sorriso delle nuvole.
Ci sono giorni in cui queste si dispongono proprio come le avresti disposte tu se ti fosse stata data la possibilità di farlo. Giorni in cui persino il cielo decide di colorarsi della tonalità che piace a te. E il Sole non disturba, ma nemmeno si nasconde. Partecipa.
E quel giorno, ne sono più che certo, era stato messo in mano mia il pennello per dipingere il cielo; non me ne capacito ancora di come quel compito possa essere stato affidato anche solo per una volta ad un inetto come me, ignorante in materia, e ancora meno di come quel dipinto fosse magnifico. Tanto che la gente sollevava lo sguardo per distrarsi da tutta quella quotidianità.
Ma sono proprio questi i giorni in cui ci si getta a rotta di collo nella folla! Non trovi? Si lasciano andare le gambe e si smette di scegliere.
Tra la calca si va avanti a spintoni e sguardi frammentati e brevi che sembrano infiniti, forse perché più intesi di quelli a cui ci abituiamo.
Si è così vicini che ci si sente parte di un tutto, di cui nemmeno si sapeva l' esistenza prima.
L'odore e il passo dell'altro. La salita e la discesa e un sasso fuori posto.
Quando voglio scoprire qualcosa di diverso mi tuffo tra la gente e apro gli occhi.
E le immagini sono così veloci che è estremamente difficile ricordarsi tutto. Anzi, spesso ci rimangono impresse cose di poco conto che mai avremmo ritenuto importanti al momento; ma quando poi le si ricordano a distanza di anni si smarrisce il senso di quelle giornate così belle, delle situazioni memorabili; ci si scorda degli attimi che sono rimasti attimi e si finisce per dare importanza al particolare sciocco.
Ebbene io ero tra la folla.
E quel senso di appartenenza che mi ronzava in testa non so dirti se fosse positivo o negativo, ma c'era.
Non so nemmeno dirti cosa mi fece avvicinare così tanto alla città quel giorno, ma io ero lì.
E su due piedi, proprio lì, su due piedi, pensai a chi ero. Mi chiesi chi ero.
Ora tu immagina che per strada ti fermi uno sconosciuto e ti chieda chi sei. Le parole in questo caso escono a tentoni dalla bocca, ci si perde in un batter d'occhio.
Mi sentii così! Esattamente così. Preso alla sprovvista da me stesso.
E' così difficile raccontarsi! Forse è anche per questo che impiego così tanto tempo a scriverti questa lettera, ma l'impresa è notevole e definirla ardua sarebbe un eufemismo.
In tutta questa confusione nella mia testa e nel mio petto sentivo un suono ben distinto che attraversava l'aria, le case e persino i panni stesi e i fili che li sorreggevano annoiati dal peso; si prolungava e correva entrando dalle finestre spalancate delle camere e da quelle appena socchiuse , si fermava un poco, per poi uscire dalle porte e gettarsi tra le voci sovrapposte della città a sfidare il rumore. Un suono unico; dolce, ma non per questo debole. La musica. Un violino.
La musica che rincorreva la città e la città rincorreva sé stessa, un'incomprensione continua.
Ma che gioia la musica. Quale nobiltà. Mai sente la necessità di urlare per farsi sentire e indubbiamente credo sia l'esperienza più libera che io abbia mai incontrato lungo il tragitto, lungo il mio tragitto.
Quando poi la si sente in lontananza e si è costretti ad aumentare il passo per non perdersi qualche nota, addirittura a sgomitare e farsi spazio a seconda di quanto la giornata è stata cattiva. E si arriva persino ad augurarsi che la gente la smetta per qualche istante di parlare, perché diamine la musica è un'altra cosa! E non si può rovinarla perché la senti come tua. Proprio come senti tuo un vestito che indossi o un oggetto che ti porti appresso, forse anche di più.
E io correvo o così mi sembrava.
Quel suono sembrava più vicino, aveva appena superato saltando quella fila di mattoni e io, sembrerà impossibile, lo inseguivo con gli occhi prima che con le orecchie.
L'ho raggiunto a fatica e mi sono fermato.
All'angolo, tra una casetta che aveva raccolto le sue ultime forze dalle fondamenta per assistere all'esibizione di quel giorno, prima di crollare dopo anni di servizio alla gente e alla città, e una discarica improvvisata  di piccole dimensioni che vedeva sedie appoggiarsi a vecchi oggetti rotti, stava lei.
Lei. Sì. Il mio particolare, tutt'altro che sciocco. Del mio ricordo lei è il particolare.
Una ragazza che accarezzava le corde del violino quasi per non far loro un torto e si cullava tra le braccia del suono che usciva dal suo strumento.
Rapito. Non sono in grado di stabilire se sia la parola esatta per quella circostanza, ma al momento trovo solo questa. Sì ero decisamente rapito. Ero lì, ma qualcuno mi stava portando via.
Eravamo lì in pochi ad ascoltare, tre o quattro anime di cui magari due nemmeno stavano ascoltando attentamente e pensavano alle loro faccende, a ciò che avrebbero dovuto fare dopo.
Ma quale dopo? Quale prima? Quante volte si indugia davanti al presente!

Io realizzai chi ero.
Il presente in quel preciso istante lo acciuffai per la coda e lo guardai in faccia.
E realizzai cosa ero stato e cos'ero in quel momento. Chi ero.
Capii una volta per tutte.
Però è assurdo notare che quando si pensa di aver aperto gli occhi definitivamente e di aver svelato a sé stesso il segreto del mondo, ci si accorga che in realtà si è scoperta solo una misera parte di quel mondo così vasto. Bisogna ritrovarsi continuamente.
Ebbene, in quell'istante, ritrovai l'unica miserabile e minuscola parte di quello sterminato mondo che già pensavo di conoscere: me.
E capii che non posso stare troppo a lungo tra la gente, perché quando questa guarda per terra a me capita di alzare lo sguardo verso il cielo e voler dipingere. Per raccontare ho bisogno del silenzio.
E che nonostante non mi voglia fermare, un po' per caso e un po' di più per destino, prima o poi mi fermo.
Compresi che non voglio smettere di scegliere, nonostante sia più facile, e che nemmeno desidero essere trasportato dal vento o dalla folla. Perché alle vie affollate preferisco le case che provano a stare in piedi. Al rumore preferisco la musica. E la inseguo, se sono costretto mi faccio anche spazio e tiro fuori il coraggio che non ho mai avuto, se può servire.
Tra la calma e la fretta sceglierò sempre la seconda.
Notai inoltre che la vita mi era sempre apparsa estremamente strana, ma che non la potrei mai immaginare in un'altra maniera.
E io tornai tra la folla, perché la vita è sia musica che rumore.
E non è tanto il fatto di eliminare il rumore, ma di cercare il suono che si nasconde tra le vie della città e rincorrerlo. E fermarsi ad ascoltare.
Perché, se tendi l'orecchio, mentre stai tra la gente, lo sentirai il suono che attraversa le case e le porte. Si nasconde dietro gli angoli più nascosti e nei luoghi meno aspettati.
Si tratta solo di iniziare a corrergli dietro.


sabato 26 settembre 2015

"About Davis"

Ho perso il gatto.
Maledetto.
Io ho sempre odiato i gatti.

L'ho ritrovato.
Sono salito sulla metropolitana.
Con il freddo che entra dalle caviglie nude e invade le gambe.
La gente mi guarda in modo strano. Forse per il gatto, forse perché io sono ciò che si definisce "strano".
Ho perso di nuovo il gatto.

Ho vagato parecchio.
Con qualche canzone nella testa.
Ovunque andassi con qualche canzone scritta in maniera sincera.

Dormo su letti che non conosco.
Di amici che non sono miei amici.
Se mi sveglio ogni mattina senza averlo chiesto ci sarà un motivo, ma qualcuno mi sa spiegare quale sia?
Cerco un posto caldo in cui dormire questa notte.

Un Sol e poi un Do. Poi viene sicuramente un Re, a seguire.
La chitarra è onesta, almeno lei.

La vita non mi ha dato molto e io non le restituisco nulla.

Abbracciami forte.
Ciò che tocco diventa polvere.
Canto dove posso e quando posso.
Sempre.
Canto persino quando la bocca è chiusa e le labbra serrate dal gelo.

Qualche raggio molesto entra dalla finestra dell'ennesima stanza sconosciuta.
Ma questo non è il mio Sole.
Non è la mia luce.
Credo non sia nemmeno la mia vita.
Non basta qualche raggio timido a farmi cambiare idea.

Mi esibisco.
Solito sgabello che traballa.
Solito maledetto microfono che riferisce il falso.
Parla di me e io sono dannatamente falso.
E' una vita che fuggo da me stesso.
Non mi voleva nemmeno il gatto.

Fa freddo.
Fuori e dentro la porta del cuore.
Qualche canzone folk deprimente con la speranza di scaldare un po' questo cuore di ghiaccio.

Ci sarà forse qualche anima in questa città che mi vuole bene e che non mi odia!
Forse una.
Con ogni probabilità nessuna.
Questa notte non dormo, sono stanco di elemosinare.
A volte persino la mia dignità si ribella.

Voglio lavarmi.
Lavare via questa sporcizia.

Mi rimane la chitarra.

Ancora lo sgabello e il solito stramaledetto locale. Quattro pareti, un palco, un paio di scimmie addestrate che si esibiscono e della birra scadente. Pazzesco! Neppure la birra è più buona!

Ho ritrovato il gatto.
In realtà si è ritrovato da solo.
Si ricordava la strada di casa.
Meglio di me.

Ho lasciato i miei problemi (infiniti) sul fondo del bicchiere.
Ubriaco, ho urlato.
Mi hanno mandato via.

Ultimo sgabello.
Ultima possibilità.
Rimane solo un rammarico.
Se avessi avuto le ali, se le avessi avute, sarei volato lontano. Non so dove di preciso, ma lontano.
Perché lontano per me è sinonimo di salvezza. Infatti non ci vado mai.
Se avessi avuto le ali sarei tornato dove sono stato felice un tempo.
Felice cosa vuol dire?

La mia musica non vende.
La mia vita ancora meno.

Lascio lo sgabello.
Lascio la musica.
Lascio il Sol.
Lascio il Do.
Lascio il Re.
Lascio la chitarra.
Lascio il palco.
Abbandono persino il locale.
E come se non bastasse la mia dignità.
Mi rimane il cappotto.


Un paio di pugni.
Finisco per strada.
Per terra.
Al freddo. L'unico vero amico che io abbia mai avuto, il freddo, capace di dirmi soltanto la verità; di sbattermi in faccia tutta quanta la verità con raffiche di vento prepotente.
La verità che io sono tale e quale a lui.
Ciò che tocco, abbraccio e bacio si congela.

Entra dalle caviglie.
Dalle maniche poco strette.
E anche dai buchi del cappotto troppo larghi.
Fa male.


Se avessi avuto le ali...



martedì 22 settembre 2015

Il funerale quotidiano

La vita è incredibile. Non per forza bella, per lo meno non per tutti. Peró è sicuramente incredibile come possa nascere una storia da un pó di forfora e da una chioma di capelli unti.
Che schifo direte voi. Ho detto così anche io.
Tutti i giorni però la signora prendeva l'autobus. Non ad un'ora precisa, niente di prestabilito. Però ci saliva. Il suo modo di vestire era molto discutibile. Non so se si vestisse male o bene, non me ne intendo in materia. Però faceva discutere, questo è un dato di fatto. È strano perché le cose che fanno discutere solitamente o sono importanti o sono strane e lei non pretendeva di essere importante affatto, ma strana lo era eccome. Inizialmente una sensazione di ribrezzo e un certo distacco. Da quei capelli così unti che le ciocche si univano tra di loro in maniera piuttosto naturale.
Aveva perso il senno da anni. Rideva nelle giornate cupe, quando il cielo minaccia grandi aquazzoni; si infuriava con il sole. Piangeva di gioia e rideva per la tristezza.
Il naso lungo andava a toccare le labbra imbevute di rossetto che non conoscevano il sapore di un bacio sincero da troppo tempo.
Aveva perso il sonno.
Da quando lui se ne era andato.
Era con lei.
E poi un giorno se ne era andato. E le era sembrato che fosse accaduto come fanno i fulmini. Ci sono e dopo un attimo non ci sono già più.
Che tutto il tempo passato insieme a lui fosse terminato come quando per due giovani amanti finisce una notte. Un giorno ti svegli e sei solo. Come quando si è nel grembo.
Solo.
E di persone se ne vedono per strada: bambini, vecchi, adolescenti. Alcuni interessanti, altri innocui. Ma sei solo.
Cerchi un volto, ma non trovi nulla di simile a ciò che vai cercando.
Sì, e poi ho scoperto dove andava. Ogni giorno, quando la mente per qualche secondo riacciuffava il senno perduto, si recava al cimitero per posare un fiore sulla tomba di lui.
Aveva perso la ragione.
Aveva perso lui.
Ma non il suo ricordo e ciò che ne era stato del tempo trascorso.

E il giorno prima di lasciare questo mondo l'aveva guardata e le aveva accarezzato i capelli. Aveva deciso di non lavarli più, da quando lui li aveva accarezzati in quel modo. Aveva deciso di aggrapparsi a quella carezza.
E ora io non provo più disprezzo. Sebbene non sappia nemmeno il suo nome io ogni giorno spero di incontrarla per chiederle come fa. Per chiederle come si fa a credere e come si fa ad aggrapparsi ad una carezza.

autore: Sebastiano Colaluce

mercoledì 16 settembre 2015

Itaca

Quella mattina si era alzato di soprassalto. La luce entrava con determinazione dall'oblò di fronte a lui e la cuccetta in cui dormiva sembrava essere più stretta che mai, tanto che quando si coricava ogni sera tarda doveva piegare le gambe per far sì che quel buco potesse contenere tutto il suo corpo.
Era un giorno strano in cui la malinconia non gli lasciava nemmeno il tempo di commettere peccato.
Il rumore che saliva dalla prua, quando la nave fende l'acqua era la sua sveglia mattutina. E' il suono che solo un marinaio può sentire per tutta la vita.
E' il suono del viaggio e della fuga, della partenza e del ritorno. Si crea schiuma abbondante e l'oceano si lascia accarezzare.
Era famoso nell'equipaggio. Ogni anima che avesse messo piede su quella nave sapeva ogni cosa che vi era da sapere riguardo a lui. Chiunque avesse camminato in coperta , anche solo per qualche minuto o per qualche ora, e poi fosse sceso e tornato a casa dalla famiglia, prima di addormentarsi ciò che sentiva era la sua voce. Così rassicurante. Aveva qualcosa di sincero che colpiva le persone diritte al cuore e poi quel suono saliva fino alla testa e attraversava con un brivido la schiena.
Quando vi era bisogno di lui, egli non tardava mai all'appuntamento.
E quando in lontananza spuntava lei, la terra, lui avvisava tutti. A volte gridava forte da perdere la voce, altre quanto serviva affinché nessuno potesse dire dopo di non essere stato informato.
A chiunque avesse bazzicato su quella nave lo potete chiedere, lo giuro, loro ricorderanno prima di tutti i viaggi e di tutte le avventure e di tutti i mari e gli oceani e del caldo o del freddo insopportabili un volto solo, due occhi e delle labbra screpolate. Una voce. Sempre la stessa, ma così diversa che la noia rimaneva esclusa da tutto questo, dal suo mondo e dal mondo di quelli che lo circondavano.
Aveva urlato in ogni buco, in ogni porto, dall'Oceania alle coste delle Americhe; la sua voce aveva raggiunto luoghi così remoti e aveva scaldato il cuore a marinai di ogni genere.
Aveva urlato nella burrasca e dopo la tempesta, sotto la neve nel Mar Glaciale Artico e sotto il caldo opprimente delle coste Africane. Aveva conosciuto le scogliere portoghesi e le rocce delle Indie.

Un volto così credo sia difficile non ricordarlo.
Non so se sia possibile crederlo, ma i giovani che scendevano a turno nei porti ad abbracciare i cari, quando questi li guardavano e chiedevano dei viaggi e della fatica, loro sapevano soltanto dire "Avreste dovuto sentirla! La sua voce."

Gli occhi blu, come quando l'oceano è profondo e fa paura.
Il Sole aveva scritto ogni suo nascere e ogni suo scomparire sul suo volto; lo aveva solcato, come le gocce fanno piano sulla nuda roccia. Le rughe erano così profonde e il sale andava a posarsi sul suo naso e gli dava terribilmente fastidio, gli levigava la pelle come l'acqua fa con i sassi.
E due ciocche di capelli bianchi cadevano stanche sulla fronte vissuta.

Quella mattina comunque, come dicevo prima, era diversa dalle altre per un motivo.
Mancava da casa da una vita. Non è un modo di dire; era da una vita che non la vedeva e l'aveva sognata di giorno e di notte, in ogni direzione e su ogni rotta. 
E ora ci tornava.
Come si torna dalla moglie o dai figli.
Lui non ne aveva di figli e nemmeno la moglie.
Aveva avuto sempre lei, la terra. La sua terra.
L'avrebbe riconosciuta da cento miglia di distanza.


Eccola là.

Silenzio.
Nessun urlo.
Non una parola.
E più si avvicinavano, più l'equipaggio si radunava attorno a lui incredulo di ciò che stava accadendo.

La sua Itaca era là. Con le braccia aperte.
Così tante volte gli era apparsa nel sonno e ora era lì. Per lui. Con lui.

Lentamente si girò verso le anime di delinquenti che lo avevano accompagnato per anni nei lunghi viaggi e la voce gli si fermò in gola e pesava come un macigno " Sono a casa, sono arrivato."
Ogni marinaio si fece muto come mai lo era stato nella vita.
"Devo scendere".
E ve lo dico io, sembrava quasi uno spettacolo per chi assisteva alla scena da terra.
Cinquanta uomini, metà dei quali avanzi di galera e l'altra metà gente che nemmeno della galera era degno, fermi come statue di marmo a guardare un uomo camminare sul pontile.

Si girò. E tutti la poterono vedere la lacrima che gli scese dall'occhio rigandogli la guancia, cavalcando ogni ruga presente. Solcò più la sua pelle quella lacrima così da tempo trattenuta, che il lavoro di anni del Sole.
E disse con un solo respiro "Terra".
E nessuno lo vide più.
Un uomo che neanche per un istante aveva tremato davanti a onde di dieci metri, piangeva nel vedere casa sua. Per anni aveva avuto il timore di tornarci. Ha davvero dell'assurdo.


Ebbene io ero tra loro. Tra i marinai.
E i giorni seguenti non si sentì più nessuno annunciare l'arrivo.
Si videro solo occhi spenti e sguardi cupi.
E nemmeno l'oceano sembrava bello come prima.
Si dormiva male la notte.
Siamo scesi anche noi.
Ho sentito dietro di me, mentre mi incamminavo verso casa, una donna chiedere ad uno dei marinai abbracciandolo che cosa ne fosse stato della sua vita negli ultimi mesi, lui disse solo "Avresti dovuto vedere quella lacrima".

lunedì 14 settembre 2015

Lettera mai imbucata

Vorrei poterti scrivere in altre condizioni e momenti migliori, ma la vita é strana e lo sai tu meglio di me. Non ho idea di cosa te ne farai di queste poche parole che oltre tutto non vanno nemmeno molto d'accordo fra di loro, ma la gente mormora che sia la speranza l'ultima a crepare e io, molto in fondo, ci credo.
La malattia sta mangiando ciò che di me resta in questo mondo, é sotto gli occhi di tutti. Sono sempre stata realista. La malattia c'è, il dolore, la fatica, la sofferenza profonda sembrano quasi volersi alleare con me di questi ultimi tempi.
Vorrei invece che tu rendessi conto di come ci sia data persino, o forse soprattutto, nel dolore la possibilità di un riscatto grande.
Non ho mai guardato la vita come la guardo ultimamente. Mancano pochi giorni. Mi manca poco tempo. Ci si rende conto di quanto tempo si è perso e di quante occasioni sprecate. Ma invece ritengo che tutta la vita dovrebbe essere così. Cercare, e alle volte rubare, quel diritto di vivere e gustarsi il presente, che a volte sembra esserci tolto e a volte siamo noi stessi a privarcene. Non trovi forse anche tu?
Non credo affatto sia una questione di opinioni sai.
Non lo è affatto, ne sono sicura.
Perchè lo sto provando sulla mia pelle. E nonostante l'evidenza che tra pochi giorni questa inizierà ad essere cibo per vermi e altri insetti interessati, persino questo non lo impedisce.
Sai, la parola che maggiormente si discosta dall'idea di 'vita tranquilla', (la cosa più terribile che esista), credo sia l'inquietudine, che ci tiene sempre desti, sempre sull'attenti riguardo al mondo che continua a girare, nonostante la nostra volontà e il nostro desiderio spesso vogliano fermarlo.
Se ci rifletti in fondo ti renderai conto dell' infinita nostra sfrontatezza e irriconoscenza nel trattare questa vita, che nonostante ogni dolore, ci è stata data.
Un tempo per ogni cosa, anche questo è vero.
Ma giuro di essere serena ora. E tra la serenità e l'essere tranquilli dovrai sapere persino tu che vi è un abisso. La prima ha alla base la certezza della vita, il secondo é uno stato d'animo più che passeggero, cosa terribile e di poco conto.
Ti auguro di non essere mai tranquillo. Questo sí.
E quando li vedi per strada che si aggirano già soddisfatti, le persone tranquille si intende, già giovani tocca a te svegliarli dal loro sonno; usa i pugni se serve, ti autorizzo io.
Ho visto vivi essere morti e uomini dati per dispersi riacciuffare la vita con impeto.
Non il tempo, ma la scelta di come utilizzarlo.
Che tu sia sempre inquieto. Questo ancora meglio.
E tutto ciò credo dipenda solamente dall'apertura del cuore.
In questo non ci sono angolazioni.
Niente prospettiva. Quando il cuore è aperto.
Non c'è nulla da fare, lui sa, devi essergli fedele. Poche bugie.
Sii fedele con lui e lui ricambierà. È piuttosto generoso.

Sempre inquieto e con il cuore spalancato.
Il testamento mica lo sapevo scrivere.
Spero di vederti presto, per spettinarti ancora i capelli. Come si faceva una volta.
Questa non la imbuco, la devi trovare tu.
Chi cerca trova si diceva una volta.

autore: Sebastiano Colaluce

venerdì 11 settembre 2015

Gli occhi che vorrei per me

Occhi di falce.
Forse perché, ogni qual volta il suo sguardo si incontrava con quello di lei, gli tagliava le gambe di netto e lo faceva pentire di tutto il male che avevo commesso.
Lo faceva sentire sporco; la doccia l'aveva fatta poche ore prima, ma si sentiva incredibilmente sporco dentro, poco più in profondità nella cassa toracica. Era un dolore pulsante.

Occhi di fronde.
Di quel verde in cui ci si culla. Gli ricordavano i salici. Sempre lì immobili ad accogliere la gente, i rami come braccia che si stringono attorno al corpo.
Verde speranza. No, niente battute. Speranza di ricominciare a vivere. Perché spesso si distraeva con la vita. La prendeva per la coda in modo arrogante, come se questa fosse un cane randagio, la guardava in faccia ed esclamava "Tanto son più furbo io!". Ogni volta ci cascava. E avrebbe avuto bisogno ogni volta dei suoi occhi. Gli occhi di Falce intendo. A far pulizia dentro di lui. Ed era ancora convinto che vi fossero meandri del suo cuore ancora buii e profondi che non aveva il coraggio di esporre, come si fa al mercatino.
Ma d'altra parte era anche convinto che gli sarebbero bastati ancora due o al massimo tre sguardi incrociati (nel senso che suoi occhi sarebbero stati collegati agli occhi di lei come da un filo) e lui sarebbe crollato.
Come fanno i sassi nell'acqua. Affondato.
Maledetto peso dell'arroganza. Maledetto peso.
Sempre più giù.
E pensa che so nuotare bene.
Solita arroganza.
Occhi di casa. Come quando la via sembra più lunga e i passi stanchi. E si entra dalla porta dopo tanta fatica e qualcuno è lì ad aspettarti. Le braccia sono immobili, ma gli occhi dicono tutto.

Occhi reali. Occhi che danno pace, ma che allo stesso tempo sono vampate di tempesta.
Occhi da cui si vuole tornare, come quando si è lontani da qualcosa di vitale.

Per il perdono, la redenzione, l'amore, la pace o la guerra questo non lo so. Ma se ne sente la mancanza.
Bisogna ritornare. Ad essere guardati

autore: Sebastiano Colaluce

giovedì 10 settembre 2015

"Brindiamo anche agli amori, quelli che si perdono tra la folla e che la ressa calpesta.."


Il Bibliotecario

Il treno, l'ambulanza e le campane della Chiesa. Non si poteva dire certo che fosse musica per le sue orecchie.
Come ogni giorno, posizionava un sassolino dentro la scarpa. Solitamente quella destra. Gli piaceva avere qualcosa che lo tenesse sempre desto e quel fastidio continuo al piede quando lanciava la gamba avanti e poggiava la suola sull'asfalto contribuiva molto al risveglio giornaliero. In realtà non è che provasse piacere a farsi del male, nessuna forma di masochismo o cose del genere, assolutamente, ma non sopportava i sognatori. Non che lui non lo fosse sia chiaro, ma non amava i sognatori che non avevano i piedi per terra. Vi sembrerà un controsenso. Peró i veri sognatori hanno un piede sempre appoggiato e un altro alzato come per saltare. E lui si aiutava con il sassolino. Ognuno ha i suoi metodi.
Chi la puntina sotto la sedia.
Altri le testate contro il muro.
Altri ancora la doccia con l'acqua fredda.
Lui il sassolino nella scarpa. Non c'era nulla di male.
E infatti lui non era un comune sognatore, di quelli che si incontrano di continuo negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie. Troppo semplice e anche abbastanza scontato direte voi. Troverete tutto il mio appoggio di fatti.
Dico sognatore non nella norma perché erano 68 anni e 3 giorni che lui non si muoveva da quella cittadina a cui un barbone non avrebbe dato un dollaro. Erano anche 68 anni anni in cui ogni singolo giorno lui aveva sognato; con un piede qua, appoggiato per terra dove sto calpestando io ora, e l'altro un poco rialzato. E con un sassolino dentro la scarpa destra.
Ogni giorno si presentava alla stessa ora, puntuale, davanti alla porta del grande edificio. Era l'esempio vivente di come l'ordinario si mescolasse con lo straordinario senza lasciarne traccia : ogni giorno era talmente diverso dal precedente o dal successivo che non si annoiava mai. Per questo avrebbe voluto iniziare il lavoro qualche minuto prima, ma l'educazione gli imponeva di presentarsi all'ora indicata.
Saliva la rampa di scale. Tredici gradini. L'ultimo gli sembrava sempre più corto degli altri. Si riprometteva che lo avrebbe misurato con il metro, ma se ne scordava puntualmente ogni singolo giorno.
Si posizionava dietro il bancone. Seduto ovviamente. E in realtà non c'è molto altro da raccontare perchè prestava libri. Era un bibliotecario. Il vero problema è che non ne aveva mai prestato uno. Era da quando aveva 21 anni, da quando aveva iniziato quel meraviglioso lavoro, che non aveva mai dato via un libro. Aveva sempre fatto sì che chiunque entrasse in quella biblioteca ne uscisse a mani vuote. Non che non sapesse fare bene il suo lavoro, sia chiaro. È che lui li amava i libri.
Come ci si innamora delle ragazze ecco, lui si era innamorato delle pagine. E le conosceva tutte, dalla prima all'ultima. Senza alcuna preferenza, erano tutte belle.
E mettetevi nei suoi panni per un solo istante : quando qualcuno varcava la soglia lui lo vedeva proprio come un affronto, come se gli stessero per rubare ciò che lui amava, ciò che lui con il tempo aveva imparato ad amare più di chiunque altro.
E si presentavano lì al bancone, timidi e impacciati sussurravano il nome del libro che lui aveva già aveva riconosciuto da quando lo avevano osato prendere in mano. E si inventava ogni giorno una storia diversa per convincerli che quello era un libro di poco conto.
"Guardi la copertina come è rovinata insomma!" diceva.
E se ne usciva anche con frasi del tipo " Questo dovremmo toglierlo dagli scaffali, anzi ora lo faccio".
E in un modo o nell'altro nessuno lo aveva mai battuto.
Ogni giorno una storia diversa si inventava, d'altra parte avendo letto tutti quei libri la fantasia certo non gli veniva a mancare. Li faceva tutti fessi.
Poi era entrato lui. Sembrava già fesso solo dalla faccia, se lo avesse anche fatto fesso lo avrebbe reso uno scherzo della natura.
Insomma era un ragazzo. E andò dritto verso un libro, lo prese in maniera decisa come se avesse già studiato quel momento tempo addietro.
E lo aprì. Sorrise. Uno di quelli buoni.
Di quei sorrisi che scappano senza volerlo e quasi non ci si riconosce.
Portó il libro al bancone e il bibliotecario non seppe dire nulla. Nessuna storia, nessuna copertina rovinata, nessuno sbaglio o cose simili. Lo lasció andare.
E in un attimo si rese conto che non aveva mai pensato che qualcun altro potesse amare ciò che amava lui allo stesso suo modo, con la stessa intensità. Non ci aveva mai riflettuto.
Ed era più felice ora che ci pensava. Non era il senso di condivisione buonista, che spesso ci rende tristi; no, non era affatto quello. Ma forse il fatto che si era reso conto di appartenere a qualcosa.
E ora, solo ora, si rese conto di cosa parlasse Fitzgerlad quando diceva: "Questa è la parte più bella della letteratura: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni".
Aveva vissuto una vita solo.
Aveva amato, ma nel modo sbagliato.
E mai come quel giorno aveva amato i libri così tanto.
Ora apparteneva.

autore: Sebastiano Colaluce

"Perchè quest'Alba è una benedizione.."




Camminava di buona lena ed era presto. Era un passo veloce, come se avesse un sacco di cose da sbrigare.
Pensava all'arte e a come non fosse mai morta. Sì, aveva sofferto persino lei nei secoli e aveva visto periodi buii, ma non era mai cessata di esistere.

A come fosse ciò che più si avvicina al divino. Lo sfiorava senza mai toccarlo, per questo l'uomo continuava a fare arte. Era il motivo per cui ne aveva bisogno. Da sempre. Da sempre era stato così. E pensava anche che sarebbe stato così anche in futuro.
Il mattino era alle porte e lei gli andava incontro.
Qualche capello si spostava verso il viso, un venticello leggero era l'autore di quel quadro.
Non c'era poi molta differenza tra lei e il mattino.
Come ogni giorno il sole aveva l'abitudine di sorgere senza che quasi nessuno lo aspettasse, anche lei ogni giorno era lì. Ed era tutto gratuito, nessuna ricompensa. Era come i regali. Erano come i regali. Sì, come quei regali che nessuno aspetta e che sono colpevoli di grandi sorrisi.
Lui guardava lei e lei si alzava per accoglierlo.
Pochi minuti all'alba.
Aspettava il momento giusto.
Per scattare la foto si intende. Naturale, questo faceva. Prendeva la realtà, metteva a fuoco e abbracciava le cose del mondo. Le stringeva forte e le catturava per sempre.
Ne aveva catturate di cose e di persone negli anni.

Il Sole era più bello che mai. Baciava il suo viso tondo tondo come a ringraziarla dell'attesa.
Lo avrebbe fatto come faceva sempre.
Peró questa mattina era diversa dalle altre, aveva qualcosa che non sapeva spiegarsi. Non avrebbe saputo dire cosa, ma qualcosa era cambiato.
Era diverso da ieri e questa cosa non la lasciava in pace.
Alzó lo sguardo, non di scatto si intende. La fronte per prima e poi il naso fino a scendere alle labbra.
Era illuminata. Illuminata significa che nulla era stato dimenticato. E il cuore batteva più forte di ieri e aumentava il passo.

Lasció cadere la macchina che penzolava al collo.
Niente foto oggi. Non sapeva cosa sarebbe successo domani e nemmeno la mattina seguente, ma questa mattina era un dono.
Come lo era lei e mica se ne rendeva conto.
E i doni non sono fatti per essere catturati, si ricevono e basta.

Erano una cosa sola. Lei e il mattino, per chi non avesse capito. Si mescolavano insieme.

autore: Sebastiano Colaluce

Traballo. Racconto breve, ma neanche troppo.

Sai stavo viaggiando e pensavo a quel che ci stavamo dicendo l'ultima volta che ci siamo visti. Non ricordo ogni parola di preciso, sai meglio di me come sono fatto.
 Insomma ci stavo pensando, mi capita a volte di ripassare sulle cicatrici e di estrarre i ricordi meno piacevoli, succede non faccio mica apposta. Lo sai. Si e poi pensavo a come fanno i marciapiedi, come li fanno larghi intendo. Magari nessuno capirà, però tu sai cosa intendo.
È inutile che li facciano così larghi quei dannati marciapiedi. Tu ci camminavi sempre sul lato più a sinistra, quasi sul bordo della strada. Ricordi? E mettevi un piede dietro l'altro. Con il tallone di uno toccavi la punta dell' altro con una precisione chirurgica. Sorridevi sempre e mi chiedevi di provare, mi dicevi che mi sarei divertito pure io. Ti davo sempre retta, sai come sono.
E mi dicevo che se tutti camminassero come ci camminavi tu sui marciapiedi si potrebbero anche fare più stretti. Si risparmierebbe un sacco di asfalto e di lavoro. Passerebbero molte più automobili. E ci sarebbero un sacco di persone che camminerebbero con il sorriso in faccia. Come il tuo.

Sai che pensavo anche a quel che mi dicevi sulle mele quando facevamo la spesa al mercato. Che ne dovrebbero vendere di più. Parlo di quelle rosse sia chiaro. Quelle belle rosse che ti dispiace quasi mangiare.
A te piacevano moltissimo. Sì me lo ricordo.
Avevi le bretelle, anche se le altre ragazze non le portavano, e con un morso dietro l'altro la mangiavi, la tua mela rossa.
E i capelli. Che fastidio che davano i capelli. Svolazzavano in giro, come se avessero vita propria.
"Dovrebbero smettere di piantare le arance e vendere più mele!", avevi detto un giorno. Mi ricordo che era d'estate quando me lo dicesti, non chiedermi il giorno perché un giorno accanto a te valeva l'altro : tutti incredibilmente avventurosi, difficile ricordarsi i particolari.
Una vita avventurosa. Questo sì.
Più mele. Sì.
E i marciapiedi più stretti. Sì, penso di sì.
Avevi sempre ragione.

E mi avevi detto che avresti voluto in casa una sedia a dondolo, di fianco al camino.
L'ho comprata sai e l'ho pure messa di fianco al camino.
La uso spesso.



Sai mi hanno detto che ti hanno trovata. Mi hanno telefonato.
Sì ti hanno trovata.
E quasi mi è caduta la cornetta.
Hanno visto un corpo per strada. Ti han trovato al bordo del marciapiede. E un torsolo di mela a pochi metri. Sempre vestita con le stesse bretelle che ti piacevano molto, anche a me piacevano a dire il vero.

Sì ti hanno trovata. Eri distesa e non ti sei più rialzata.
Non posso dire che non mi manchi. Peró ho piantato un melo in giardino. Le fa belle rosse, le mele.
E ho smesso di comprarle quelle maledette arance.
E cammino come camminavi tu.

Sempre traballando.

autore: Sebastiano Colaluce