giovedì 21 gennaio 2016

Avevamo I'Irlanda


Lavoravo nella sede centrale della banca, giusto sopra lo studio di Douglas con il quale avevo avuto una discussione il giorno prima riguardo al fatto se la domenica fosse il primo o l'ultimo giorno della settimana. Non eravamo giunti ad una conclusione forse perché, sia io che lui, siamo rimasti sulla medesima posizione di partenza.
Ero tornato a casa verso le undici e avevo trovato Margaret ancora alzata; era seduta sul divano con le gambe incrociate e stava leggendo una delle sue stupide riviste che le regalava il postino per fare colpo su di lei. Un bacio distratto sulla guancia e mi sono diretto subito in cucina. Avevo voglia di bere per vedere se è proprio vero che si può affogare il dolore in un bicchiere o, forse, solo per distrarmi da quel lavoro che ultimamente assumeva sembianze bestiali.
Margaret si era alzata e si era seduta sul bancone di fianco ai fornelli, sullo stesso bancone sul quale mia nonna una volta creava, e non sbaglio il verbo, piatti che invidiavano persino su in cielo.
"Ho voglia di Irlanda" disse lei rompendo quel mio silenzio che durava da quando avevo lasciato chiudersi dietro di me la porta dell'ufficio.
"Irlanda?"
"Sì, potremmo andarci il prossimo weekend; potremmo prenderci due giorni di riposo."
Stavo in silenzio cercando di illudermi che nulla  fosse stato interrotto. Gli occhi fissi sul fondo del bicchiere, perché quando sono meschino non riesco mai a guardarla negli occhi.
"Dai John lo sai anche tu che abbiamo bisogno di una pausa. Torni distrutto ogni sera dal lavoro, che poi nemmeno mi dici cosa fate là dentro! Spesso nemmeno ti sento tornare."
Si dondolava sul bancone che scricchiolava ogni volta che Margaret giocava a spostare il peso.
"Hai un'amante chiusa dentro al tuo ufficio!" disse lei ridendo con un velo di sospetto sopra le labbra. Era una di quelle tipiche affermazioni dalle quali ci si aspetta solo una risposta di consenso. Istanti che paiono infiniti. Sembra quasi che mi inviti a rispondere subito, senza lasciare spazio, senza prendere fiato.
"Sai bene che non posso lasciare il lavoro" le risposi io senza dare peso all'ultima frase.
"Sono solo due maledetti giorni John, due e poi potrai tornare al lavoro. Due e basta. Secondo me non si accorgeranno neanche che sei mancato."
"Magari" sospirai.
"Guardati John! Non hai mai bevuto e ora bevi come un dannato!"
"Sarà"
"John non lo dico solo per te. Anche io ho bisogno di un po' di Irlanda! Non riesco più a dipingere in questa casa, c'è sempre la stessa luce, le stesse quattro mura, le stesse stupide cose" disse lei.
"Margaret tu non hai mai visto l'Irlanda, perché diavolo dovresti averne voglia?"  le risposi alzando il tono di voce. 
"E' proprio per quello J! Perché non la conosco. Ne vorrei un pezzettino anche io, un pezzettino d'Irlanda. Prima che affondi ecco!".
Con questa aveva raggiunto il limite, era già stata una giornata pesante e queste fantasie non la miglioravano. 
"Ma ti senti? Prima che affondi quella maledettissima isola dovrà affondare il mio ufficio, la nostra casa e non so che altro.."
Aveva smesso di giocare sul bancone. Aveva smesso di muoversi e guardava fuori dalla finestra.
Ero stato troppo duro, senza nemmeno volerlo realmente.
Avevo appena buttato giù il terzo bicchiere.
"Margaret"
"Dimmi"
"Cosa ti manca?"
Teneva sempre lo sguardo fisso fuori e mi rispose circa così "John ti ricordi quando tornavi a casa alle sette? E quando il sabato non lavoravi e ci facevamo quelle passeggiate lunghissime?
Non ci lamentavamo ancora del freddo o del caldo. Andava bene così. Che ci fosse la strada.
Che potessimo camminare, io e te.
E io ridevo e mi appoggiavo a te, come fanno le persone anziane; invece ora che non siamo più giovani non mi va più di fare come le vecchiette.
Ti mancano quei giorni John? Ti mancano quelle passeggiate? A me sì.
Dipingevo di continuo e le mie giornate erano molto illuminate.
Ora c'è solo un sacco d'ombra e qualche rivista che faccio finta di leggere perché non riesco a pensare ad altro, non riesco a far rivivere il passato. Non riesco John, ci provo, ma accidenti non ci riesco. 
Vorrei solo una lunga passeggiata in Irlanda."
Stavo con lei, ma non ero lì. Riguardavo a quei giorni trascorsi con Maggy ormai morti. 
La vidi per primo quella lacrima, quella che le scese dall'unico occhio a cui potevo aggrapparmi. Chissà da quanto stava lì, quella lacrima narcisa. Ne valeva cento. Valeva tutte quelle di settimane, mesi, anni di dolorosa finzione e di immutato tacere.
Io le sorrisi. Era un sorriso che trattenevo da troppo tempo, proprio come la sua lacrima.
Lei lo capì. Come il primo sorriso tutto mio che lei sola aveva conosciuto, come prima di chiederci quale fosse il nostro nome, come prima di conoscere l'infanzia dell'altro.

Ci siamo svegliati.
Maggy stava dipingendo fuori in balcone e quel vento, che in realtà era una brezza leggera, le muoveva il vestito che le dava parvenze divine.
"John alzati! Va bene che è domenica, ma non puoi stare tutto il giorno a letto. Dobbiamo andare a camminare, non ti ricordi?"
"E' domenica?" chiesi io.
"Certo che è domenica John! Come hai fatto a dimenticarlo? Dopo il sabato viene la domenica. J sei il solito pesce rosso, saresti capace di dimenticarti anche il mio nome."
"No, non mi dimentico Maggy, è solo strano."
Io non so se la domenica sia il primo o l'ultimo giorno della settimana, ma avevamo l'Irlanda, avevamo il nostro pezzo. Ognuno il suo.
Avevamo capito senza dircelo. Il colore si stendeva da solo sulla tela e non faceva né troppo caldo per essere insofferenti, né troppo freddo per irrigidirsi. Maggy sorrideva come un volta, come nella sua infanzia.
Eravamo pronti per la passeggiata.
Avevamo l'Irlanda.

2 commenti:

  1. Ciao Sebastiano, sono Sara, è da un po’ che leggo il tuo blog, leggo e rileggo i tuoi racconti e le tue poesie e mi piacciono sempre di più; sono capaci di condurmi per qualche istante, che pare infinito, in un mondo completamente diverso, in cui io non sono più quell’io che ho conosciuto fino ad ora. Mi sono sentita Eveline, con i piedi immersi nella sabbia ad attendere quel punto che sta fra la notte ed il giorno, e tutto questo è accaduto in una mattina in cui andavo a scuola preoccupata per un’interrogazione. Durante una tediosa interrogazione di italiano sono stata quel vagabondo che sale sul treno senza conducente per andare ad ascoltare Dio suonare il sax. Ho intravisto anche io quei sogni che celava dentro di sé la Silver, quando è salpata mi sono ritrovata entusiasta e con un sorriso da ebete stampato in faccia, che si è subito spento quando è colata a picco, per poi ritornare a credere, perché hai ragione, la gente deve credere a qualcosa, altrimenti come si potrebbe reagire nei momenti in cui ti crolla la terra sotto i piedi e ti ritrovi a precipitare nel vuoto? Ti ringrazio per questa fuga dalla realtà e per le riflessioni che da essa scaturiscono, e soprattutto per “Avevamo l’Irlanda”, è stata una breccia di speranza, poiché la fredda monotonia in cui si rischia di incappare, dando tutto per scontato, non valorizzando nemmeno più ciò che fino a poco prima era stata una fonte di felicità, può essere vinta dal coraggio di essere se stessi, di ammettere la verità, accettarla ed essere disposti a cambiarla, superandosi, superando la proprie abitudini che danno tanta sicurezza e buttandosi. Aspetto con impazienza qualche altro tuo racconto, complimenti ancora.
    P.S.
    “Traballo. Racconto breve, ma neanche troppo.” mi ha lasciata senza parole.
    Sara

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  2. Ciao Sara! Innanzitutto ti ringrazio molto.
    E' sempre bello sapere che dall'altra parte c'è qualcuno che ascolta e che rende vera la letteratura: essa è rapporto e dialogo.
    Però non deve mai essere una fuga dalla realtà, al contrario, ci invita sempre a guardare e studiare questo mondo sempre più a fondo con occhi mai appagati. Tienilo a mente!
    Grazie ancora e a presto.

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